Scarti

di: Daniele Imperi

Eccoli uno dietro l’altro, sfilare come formiche lungo la strada. Sono loro e sono tanti, quest’oggi: pisciabrache, sdentati, ebeti, claudicanti, vegetali, informi, storpi e aborti macrocefali. Forza lavoro pari a zero.

La mia frusta schiocca nel silenzio freddo del mattino. Non una voce, però, solo il rumore sordo che lacera l’aria e il mio sorriso che s’allarga a vederli avanzare con più convinzione. Verso la Stanza Ultima.

Da ore il fumo sale al cielo, grigia colonna contro il nero delle nubi cariche. Lampi sporadici elettrificano l’atmosfera e per un attimo la Torre viene illuminata, momentanea apparizione nella notte.

Nella sala mensa ridiamo. Leggendo gli ultimi pensieri dei respinti ci si diverte sempre. È come vedere figure in celluloide di un tempo. Sentiamo le loro paure, ripercorriamo a ritroso le loro vite nell’attimo in cui il pavimento si apre e i corpi precipitano giù, nella fornace.

Il fumo che sale al cielo porta con sé l’odore di quei corpi consumati dalle fiamme, le grida di sofferenza che svaniscono in un’eco angosciante. Le ceneri si depositeranno altrove, lontano.

Cenere alla cenere, polvere alla polvere si diceva un tempo. Forse è a questo che si riferivano.

Il mattino è uggioso. Avvolto nel mantello, attendo un nuovo gruppo uscire dall’Ambulatorio, dove i segnalati saranno dichiarati respinti o rivedibili.

Poco prima c’era stato un problema al sistema d’accensione della fornace. Risolto in pochi minuti. Per un attimo ho temuto di dover restare qui anche il pomeriggio, come accadde il mese scorso. Solo, in mezzo a tutti quegli scarti che ti squadrano con occhi vacui, timorosi, supplicanti alle volte. Perché c’è qualcuno che sospetta che non sia indolore tutta la faccenda. Qualcuno ha ancora qualcosa che funziona nel cervello.

Eccoli. Sono pochi, rispetto a ieri. Meglio, staccherò prima. I pisciabrache sono sempre fra i primi. Vecchi corpi sbiancati dal tempo, i mutandoni ingialliti e umidi, puzzolenti. Li detesto più degli altri. Muovo il mio braccio con decisione. L’aria risuona dello schiocco della frusta e i piedi sembrano volare sulla strada verso la Torre.

Oggi mi concedo una visione a volo d’uccello. La porta della Stanza Ultima, in cima alla Torre, si chiude. La blocco con il chiavistello, ridiscendo fino alla sala comando. Attivo la fornace.

La mia mente sorvola la terra, diviene parte delle molecole dell’aria, penetra nei muri, è là, in mezzo a loro, ai respinti.

Li vedo dall’alto spostarsi freneticamente quando il pavimento inizia a scorrere. Li sento piangere. I primi corpi cadono giù: sono gli ebeti, i claudicanti, i vegetali e gli storpi. Quelli meno avvantaggiati. I pisciabrache, invece, no, quelli resistono, quei maledetti. Li odio ancor più, voglio attendere la loro caduta, vederli vaporizzare al calore parossistico del fuoco.

Ed eccoli, uno dopo l’altro, affannarsi ad avanzare negli ultimi centimetri di pavimento rimasto, la loro biancheria inumidirsi in una macchia giallastra che s’allarga, finché non c’è più superficie su cui stare, solo dieci metri di vuoto e le fiamme che lambiscono, arrossano, bruciano, annientano.

I pensieri restano scritti nell’etere, sono eredità dei rimanenti. I tuoi segreti, i tuoi ricordi vagano liberi in attesa che qualcuno li afferri, li faccia suoi.

Il tempo scorre. Da anni, ogni giorno vedo salire il fumo al cielo, ogni giorno vedo fluire i pensieri senza più una mente a contenerli. Ne prendo qualcuno, tengo i migliori, dimentico il resto. Giorni identici uno all’altro, file e file di respinti da non far gravare sulle vite degli abili.

Un sistema che funziona.

La chiamata giunge un mattino più freddo del solito. Obbedisco e mi avvio all’Ambulatorio dove una squadra di medici è già pronta per visitarmi. Li vedo osservarmi i pantaloni, storcere il naso. Confabulano fra loro, prendono decisioni, registrano il mio codice e avviano la pratica di smaltimento.

Respinto.

Accolgo la notizia con distacco, una lieve nostalgia per la frusta, ma in fondo siamo trenta miliardi e quando vien meno la forza, quando il nostro corpo non risponde più, occorre farsi da parte.

Esco, raggiungo gli altri. C’è calca nella sala d’attesa prima di uscire all’aperto.

Eccoci uno dietro l’altro, sfilare come formiche lungo il sentiero. Siamo noi e siamo tanti, quest’oggi: pisciabrache, sdentati, ebeti, claudicanti, vegetali, informi, storpi e aborti macrocefali.

Sento la frusta che schiocca nel silenzio freddo del mattino. Non una voce, però, solo il rumore sordo che lacera l’aria e il sorriso del caronte che s’allarga a vederci avanzare con più convinzione. Verso la Stanza Ultima.

Il cerchio si chiude. Lascio i miei pensieri fluire nell’aria prima che la porta della Torre ci divida dal passato e il mio corpo svanisca.

Sono lassù, salgo la scalinata che mi porta in cima in attesa della caduta.

Sono il primo pisciabrache della fila.

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