La Quercia del Morto

di: Luca Ricatti

Lo scannarono col coltello.
In tre lo reggevano, uno gli tagliava la gola. L’ultimo guardava e pregava.
Il sangue iniziò a fare lunghi schizzi a intervalli regolari, innaffiando il tappeto di foglie morte che ricopriva il bosco.
L’aria era umida e gelida. Da qualche parte, al di sopra dei rami spogli, c’era un cielo plumbeo.

«De profundis clamavi a tte Domine
Domine ecche saudi voce mea
fian taure tu ante dente
in voce deprecazzioni mea
s’inquitàte asservàveri Domine… »

«Aho! E piàntela co sta lagna!», gridò uno di quelli che reggevano il moribondo, che ancora si dimenava come una furia. «’Nvece da dacce na mano, sta a ffà er prete, li mortacci tua!»
«Ma poi andó cazzo l’hai imparato er latino?», disse quello col coltello, pulendo la lama sui pantaloni della vittima.

Ernestino, quello che aveva pregato, sputò a terra.
«Nullo so er latino. Nun so manco che vor dì. Lo recita er prete in onore de li morti».
La vittima stava smettendo di sussultare. Ernestino si chiedeva cosa stesse cercando, con gli occhi spalancati sui rami spogli della foresta.
Gli sembrò che stesse biascicando qualcosa: «Mamma».
Una chiazza gli si era diffusa sui pantaloni, morendo si era pisciato addosso.

«’Mbè, questo nun ciaveva onore davero, sto stronzo qua», disse un altro mollando la presa sul cadavere e tirandogli un calcio. «Si nun crepava oggi, quarche giorno finiva scannato all’osteria da n’artro pezzente come lui».
«E moriva da ‘mbriaco», aggiunse quello col coltello. Che poi minacciò Ernestino: «A forza da penzà all’anima de li morti, finisci ‘nzieme a loro. Penza a li cazzi tua, dà retta».

«Pezzente ‘n par de cojoni!», gridò un altro svuotando la borsa del morto nel palmo della mano. «Anvedi li baiocchi che ciavéva, sto burino!»

Accorsero tutti a vedere. Lo avevano seguito, sapevano che aveva vinto una bella mano a carte. Lo avevano tenuto d’occhio fin da dentro l’osteria. Non sapevano che nella borsa aveva già altro denaro. Si rivelò un bottino migliore del previsto.

Stavano in cerchio. Il fiato dei cinque banditi si condensava in nuvole di vapore che si univano al centro.

«E mó dovemo divide pe cinque?», disse uno.
Si voltarono tutti a guardare Ernestino.
Quello che aveva sgozzato la vittima prese subito la parola. Tutti lo consideravano il capo:
«Quann’è stata l’urtima vorta c’hai usato lo zaccagno, Ernestì?»
Ernestino ringhiò:
«Lo stracciarolo l’ho infirzato io! Ma che cazzo volete?». Mise la mano sull’impugnatura del coltello.

Fecero tutti un passo indietro, tranne il capo. Che scoppiò subito in una risata:
«Ahó, ma che fai, te ‘ncazzi?» Gli appoggiò una mano sul viso, una carezza paterna. «Basta chiacchierà! Aprimo du bottije e famose na bevuta! È stata na bella giornata!»

Notte di paura

Stavano tutti dormendo. Eccetto Ernestino.
Dopo la prima sorsata, aveva fatto finta di bere. I suoi compari s’erano scolati diverse bottiglie e ora erano tutti addormentati, completamente ubriachi.
Li controllava, vigile e con la mano fissa sull’impugnatura del coltello.

Quando fu assolutamente certo che tutti stessero dormendo profondamente, decise di agire. Non aveva dubbi, lo avrebbero ammazzato per non dividere il bottino per cinque. Doveva darsi alla fuga.

Afferrò la borsa con tutto il malloppo. Aveva i piedi congelati, faceva male affondarli nel tappeto di foglie morte fradice. Slacciò le briglie del suo cavallo dall’albero dove stava legato insieme agli altri. Non salì in sella, lo condusse tirandolo per qualche decina di metri, per fare il più piano possibile.
Erano anni che non sentiva il cuore in gola in questo modo.
Quando fu sicuro, montò in groppa e colpì coi talloni sul fianco dell’animale, con tutta la furia che aveva. Galoppò senza sosta, galoppò fino all’alba.
Finché il cavallo non inciampò sulla radice di un albero.

Caddero a terra insieme.
L’osso della spalla gli era uscito fuori. Raccolse un ramo da terra e se lo mise in mezzo ai denti. La corteccia umida gli si sbriciolava in bocca. Strinse forte, si afferrò il braccio e tirò. Riuscì a soffocare il grido e la spalla tornò al suo posto.
Si avvicinò al cavallo. Nitriva.
Aveva un a zampa spezzata. E faceva un rumore infernale.

Estrasse lo zaccagno e lo sgozzò.
Coprì la carcassa alla bene e meglio con le foglie morte. I suoi inseguitori l’avrebbero vista, ma seppellirla era impensabile, ci sarebbero volute ore e avrebbe consumato tutte le energie.
La luce del mattino filtrava fioca tra i rami. Doveva correre.
Corse.

Strani frutti

Era mattina da un pezzo, ma nel bosco regnava la penombra.
Per quanto avessero bevuto vino fino a notte fonda, i suoi vecchi compari dovevano essere ormai svegli e sulle sue tracce.
Ma Ernestino non aveva più fiato in corpo per correre. La borsa coi soldi pesava e non aveva dormito.
Aveva il cuore in gola da ore, aveva fame e sete.
Per questo quando vide gli strani frutti che pendevano dalla quercia, in principio pensò di stare sognando.

Dovette avvicinarsi fino alla distanza di un passo, allora capì che stava effettivamente fissando un braccio con tutta la mano. La pelle era grigia. Dal ramo accanto pendeva una gamba. Il busto era subito dietro. La testa la vide per ultima, perché era appesa piuttosto in alto.
Vomitò.
Si rimise subito in cammino, per lasciarsi il cadavere smembrato alle spalle il prima possibile. Ma dopo qualche decina di metri si fermò.
Tornò indietro.

Ernestino non era mai stato religioso.
A otto anni aveva inaugurato la sua carriera criminale svaligiando una sagrestia. Pensava ai preti solo come a ladri più furbi e meglio organizzati. Ma ogni volta che vedeva un morto pensava al cadavere di sua madre. Aveva sei anni quando l’aveva guardata stesa con gli occhi sbarrati e la bocca aperta.
Era stata accoltellata da uno al quale s’era prostituita e che non aveva soldi per pagarla.

Ogni cadavere gli ricordava quello di lei. Fosse quello di un farabutto o di una ricca signora, tutti i morti somigliavano a sua madre.

Tornò indietro e alzò lo sguardo verso i resti in putrefazione appesi ai rami della quercia.

Rispetto dei morti

«De profundis clamavi a tte Domine
Domine ecche saudi voce mea
fian taure tu ante dente
in voce deprecazzioni mea
s’inquitàte asservàveri Domine… »

Una voce lo interruppe:
«De che cianci, viandante solitario? Forse che nun ciài de mejo da fare che recitare poesie innanzi a sti pezzi de carogna appesi a sti rami?»

Ernestino si guardò prima intorno. Poi alzò lo sguardo.
E allora vide la testa mozza con gli occhi aperti, che lo fissavano. Pensò che la penombra lo stesse ingannando. Poi la bocca si mosse:
«Embé? Mó che te interrogo hai perso la favella? Arispondime! Perché ciancichi poesie sotto a sto mio cadavere?»

Ernestino soffocò un urlo di terrore. Voleva fuggire, ma rimase pietrificato.
«Ahó! E che? Te spaventi pe no cadavere? Tu c’hai scannato e seviziato e tormentato? Tu che hai guardato tanti cristi che se spengevano co lo coltellaccio tuo dentro a la panza?
Sò morto, sì! E morto ammazzato! Ammazzato pe la colpa d’avé amato co lo core e co la carne la fija de no signore.
E mó piantela da fà lo cacasotto e dicime lo motivo per lo quale storpiavi la lingua de li antichi davanti a sta mia carne puzzolente!»

«Pe… pe rispetto a ‘n morto!», rispose balbettando Ernestino.
«E tu che ne sai che io me merito lo rispetto tuo?»
«Tutti li morti se meritano rispetto! Puro i disgraziati assassini, perfino l’infami!», rispose Ernestino.
«Ah sì? E pure se ero no gendarme che te arrestava e martellava de botte e t’affamava dentro na sudicia galera?», chiese il cadavere.
«Puro si eri er più infame de li caporali! Tocca sempre avé pietà de li morti!».

«Non sò parole comuni da sentire, queste che sputazzi. Vorrei vedere se ciavresti cotanta pietà puro de li banditi che vengono da lo bosco pe scannatte. Ma per quanto me pari no fesso cacasotto, me fai simpatia e te vojo aiutare. Perché ciài avuto pietà de sta mia carogna squinternata. Sbrigate e vattene, che a quei balordi ce penso io».
Dette queste parole, i pezzi del cadavere caddero a terra, con sei tonfi sordi. E lentamente si avvicinarono gli uni agli altri, fino a ricomporsi.

Il cadavere ricostituito stava eretto di fronte a Ernestino. La pelle pendeva a brandelli dal volto, la clavicola spuntava da sotto la giacca stracciata. Gli occhi erano due grosse palle sul punto di cadere fuori dalle orbite e la bocca senza più labbra stava aperta sui denti gialli in un sorriso sciagurato.

Allungò la mano grigia, con le unghie lunghe e storte e le nocche squarciate, e afferrò il cappello di Ernestino. Poi si prese anche il mantello. Mentre li stava indossando, una grossa ombra emerse dal bosco.
La carcassa del cavallo, abbandonata tra le foglie cadute diversi chilometri prima, stava dritta tra gli alberi. Aveva lo squarcio sul collo e la zampa storpia.

Il cadavere, col mantello e il cappello di Ernestino, montò sul cavallo e s’addentrò nella foresta al galoppo.

Il morto ammazzato

Il morto si fece trovare dai quattro balordi di spalle, a cavallo.
Gli saltarono addosso tutti insieme, lo accoltellarono decine di volte. Quando fu a terra, lo voltarono, per cercare la borsa col denaro. E allora videro che il morto ammazzato era già putrefatto da un pezzo.
Saltarono via inorriditi.
«È na maledizione!»
«È ‘n cadavere!»
«Santa Madonna perdoname!», piagnucolava uno. «Giuro, cambio vita!»
Il capo lo colpì con un pugno alla nuca. Si avvicinò al cadavere e gli schiacciò la testa col tacco.
«A mme numme spaventa manco er diavolo».
«Sì ma sta carogna nun ce lo ridà mica, er bottino», disse un altro.

Restarono in silenzio, attorno al cadavere immobile.
Nessuno di loro avrebbe dormito, la notte seguente. E neanche quella dopo ancora.

Nel frattempo Ernestino aveva corso ancora e ancora. Finché finalmente era uscito dalla foresta.
Non c’erano nuvole nel cielo e il sole lo accecava.

Camminò in quella nuova luce per alcune ore e giunse a una fattoria. Chiese ospitalità e gliela diedero.
Ripartì e arrivò in un villaggio.
Un mese dopo era ospite in un convento di frati.

Lo accolsero e divenne il loro uomo di fatica. Puliva, spaccava legna, si occupava della latrina.
Non raccontò mai a nessuno di quanta gente aveva scannato, neanche in ginocchio nel confessionale. E neanche del morto che s’era fatto ammazzare al posto suo.

Un giorno, dopo diversi anni, vide al portone del monastero una madre con un neonato, venuta a chiedere elemosina. Una stracciona come tante, come era stata sua madre, per quanto poteva ricordare. Non aveva più di quattordici o quindici anni.
Ernestino andò nella piccola baracca dove alloggiava e prese la borsa col bottino, il suo piccolo tesoro. L’aveva tenuta nascosta per anni.
La portò alla ragazzina.

Quella prese il sacchetto logoro con fare sospettoso e lo aprì. Sgranò gli occhi e fissò Ernestino senza parole.
«Ah vecchio, trovatene n’antra», disse alla fine. «Io nulle faccio certe cose».
«E fai bene», rispose Ernestino. «Ma questi nun sò pe te. Sò pe’r pupo».
«E che vvoi dar pupo mio?»
«Vojo che su madre nun se fa ammazzà».

Ernestino era ormai anziano e stanco.
Passarono alcuni giorni e si ammalò.
Fu sepolto dai frati con una piccola cerimonia, in una buca con una croce di legno.

 

Pubblicato in origine sul sito dell’autore

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