Zucchero filato

di: Daniele Imperi

Quando la sagoma della gigantesca ruota apparve in lontananza, Zefirino strinse più forte la mano di sua madre. Le giostre sembravano confondersi con i colori autunnali della campagna attorno al luna park, un caleidoscopio giallo-arancio che risaltava contro l’azzurro del cielo d’ottobre. Il bambino era eccitato. Nella sua mente s’immaginava cavalcare destrieri bianchi in un girotondo altalenante, colpire bersagli e vincere orsacchiotti di peluche, salire sulla ruota delle meraviglie e guardare dall’alto il mondo intero. E mangiare caramelle e altre leccornie, giocare coi compagni di classe che, ne era sicuro, erano anche loro là quel giorno.

Sì, perché era domenica e tutto il paese era al luna park. Poteva sentire, man mano che s’avvicinavano, il chiasso e la confusione farsi sempre più vividi, reali. E la musica, una melodia che Zefirino non aveva mai udito prima, che creava una sensazione di malinconia e allegrezza insieme.

«Sbrighiamoci!», disse a sua madre, incitandola e aumentando il passo.

Camminarono più veloci, la donna che sorrideva in quel giorno speciale. Avrebbero festeggiato, ma in modo diverso dal solito, proprio come aveva chiesto il bambino.

«Non voglio la festa, mamma», aveva detto due giorni prima, quando la donna gli aveva chiesto chi volesse invitare degli amici. «E neanche la torta e i regali. Non mi diverto alle feste.»

«Ma come?»

«Andiamo al luna park!», aveva urlato in preda all’entusiasmo.

«Al luna park?»

«Così è come se faccio la festa con tutti quanti e però non devo stare con nessuno, ma faccio quello che mi pare e vado su tutte le giostre!»

La donna era rimasta a guardarlo con un’espressione di tenerezza sul volto, non sapendo cosa rispondere.

«Daiii, mammaaa!»

E lei era scoppiata a ridere. «Va bene, Zefi», aveva acconsentito, «andremo al luna park, se è proprio questo che vuoi.»

«Sììì!»

E adesso eccoli lì tutti e due, che s’affannavano sul vialetto che portava dritto dritto all’entrata del luna park, un cancello sormontato da un’enorme bocca di chissà quale creatura fantastica che li avrebbe inghiottiti per scaraventarli nella frenesia e nella spensieratezza della città dei giochi.

Quando entrarono, Zefirino spalancò gli occhi. «Mamma», disse senza fiato, affascinato dalla mescolanza di colori e genti che andavano e venivano per le vie senza nome del parco dei divertimenti.

Quello era il giorno del suo settimo compleanno.

Un giorno che avrebbe ricordato per sempre.

***
Da due ore vagavano per il luna park e il bambino aveva già fatto tre giri sulle auto a scontro, due sulla giostra dei cavalli e altrettanti sul razzo e uno sull’enorme ruota che svettava su tutta la campagna. Non era stanco, ma adesso preferì godersi la vista di bancarelle che fra una giostra e l’altra vendevano di tutto e di tendoni coi loro presentatori che promettevano incredibili spettacoli a prezzi bassi.

In una di quelle tende entrarono madre e figlio e restarono ammutoliti davanti a un uomo che tagliava sua moglie in due. Il mago chiese al pubblico quale metà volesse e tutti risero, ognuno facendo la sua scelta. Zefirino propose a sua madre di prendere il posto della donna, promettendo che si sarebbe portato a casa tutte e due le metà e le avrebbe riattaccate con la colla.

«Zefi, ma che ti viene in mente?», disse e rise, abbracciando il bambino.

Uscirono e la fiumana di visitatori li sospinse lungo il flusso che serpeggiava in quella bailamme di colori e suoni e grida e forme e tutto intorno era un ridere e chiacchierare a voce alta per sovrastare il brusio quasi assordante.

Non sapevano che ora fosse e in quel giorno il tempo parve essersi fermato all’ora della ricreazione. Camminavano mano nella mano come due improbabili fidanzati e sorridevano a ogni sguardo, puntando il dito verso questa o quell’attrazione o correndo per entrare per primi in un tendone dall’aspetto misterioso.

Un cane li superò scodinzolando, il collare che frustava il terreno, e subito dopo apparve un uomo che l’inseguiva chiamandolo per nome. Una coppia di anziani era ferma a immortalare quel momento nello scatto fulmineo d’una fotografia e alcuni bambini schizzarono oltre la mamma e suo figlio gridando un “ciao, Zefi!” che si perse nell’aria sfumando come un colore annacquato.

Nell’angolo più remoto del luna park giunsero coi rimasugli scombinati della gente che, nel frattempo, s’era dispersa chi da una parte chi dall’altra e quel fiume animato di persone vocianti s’era prosciugato in grumi isolati di curiosi che si fermavano qui e là a riordinare i pensieri.

Da un punto imprecisato venne l’odore dolce e pungente di qualcosa che Zefirino non riconobbe, ma che subito catalogò come leccornia da scoprire e mangiare. Strinse più forte la mano della madre e fu lui a condurla seguendo la traccia olfattiva di quel profumo irresistibile che gli ricordava tutti i sogni del mondo.

Accanto a una bancarella di dolciumi un uomo girava un bastoncino in un calderone e magicamente sul legno sottile compariva una specie di cotone dai riflessi azzurri o rosa. Zefirino non aveva mai visto una magia come quella e guardò la mamma a bocca aperta senza trovare le parole giuste per chiedere cosa fosse.

«È zucchero filato», disse la donna, indovinando la domanda inespressa del bambino. E gli spiegò come funzionasse quella prodigiosa macchina che da semplice polvere zuccherosa riusciva a creare ovatta profumata e mangiabile.

Zefirino restò a osservare l’uomo che ruotava la mano dentro il pentolone e ne tirava fuori il bastoncino con una sorta di nuvola bianca attaccata soffice come cotone.

«Ma si mangia davvero quella cosa lì?», chiese, senza neanche rendersi conto di aver parlato. Non c’erano clienti a quel banco e il bambino pensò per un attimo che l’uomo stesse preparando per sé quella prelibatezza di zucchero.

«Puoi mangiare ciò che accetti come tuo divenire», rispose sibillino il venditore, sorridendo con una strana luce negli occhi.

«Posso mangiarne uno, mamma?», chiese Zefirino, sempre più curioso di assaggiare lo zucchero filato.

«Quant’è?», domandò la donna.

«Un omaggio personale, signora», rispose l’uomo, porgendo lo zucchero filato al bambino.

«Oh, la ringrazio, davvero», disse la donna, arrossendo per quella gentilezza inaspettata. «Zefi, ringrazia il signore.»

«Grazie», disse il bambino, ma la sua mente era già oltre, aveva morso quello strano dolciume, l’aveva fatto a pezzi e riappiccicato, se n’era saziato. Lo prese dalla mano dell’uomo, ne sfiorò la pelle scurita dal sole e rugosa e si portò alla bocca lo zucchero.

«Chi da me mangia quello zucchero, da me torna di filato», disse il venditore, ancor più enigmatico di prima.

Madre e figlio sorrisero all’uomo e a quel suo insolito e divertente modo di trattare coi clienti, lo salutarono, ringraziandolo ancora, e si avviarono verso il centro del luna park.

Intanto il pomeriggio arrancò verso il tramonto e la luce sbiadita del giorno parve per un attimo ancor più triste, mentre il cielo iniziava a macchiarsi di nubi sfilacciate come i pezzi di zucchero filato che Zefirino si portava alla bocca.

***
A casa ne ricordò il sapore dolce e l’inconsistenza, la possibilità di farlo a pezzi e di riattaccarli creando forme nuove, le dita tutte appiccicose, il profumo che stimolava l’acquolina. L’euforia della giornata si era spenta pian piano in una corrente di ricordi che avevano travolto la mente di Zefirino mentre uno a uno li trasformava in piccole storie. E a cena quelle storie tennero compagnia a madre e figlio finché giunse l’ora del sonno e la donna rimboccò le coperte al bambino.

Nel sogno cavalcava il destriero della giostra, ma non più prigioniero della piattaforma girevole. Scorrazzava per le vie del luna park sul dorso del cavallo bianco soffice come una nube del mattino. I compagni di classe gli correvano dietro gridando il suo nome, ma Zefirino non li sentiva più, avanzava spedito verso la bancarella di zucchero filato, dove l’uomo girava il bastoncino nel calderone tirandone fuori matasse bianche e profumate.

«È la fabbrica delle nuvole», disse, quando vide il piccolo cavaliere.

L’uomo alzò lo zucchero filato al cielo e una folata di vento lo staccò e tutta quella massa zuccherosa volò via, salendo salendo finché nella volta azzurra apparve una nuvola in più.

«Voglio provarci anch’io», disse Zefirino, scendendo da cavallo e avvicinandosi al pentolone. Afferrò un bastoncino e prese a girarlo dentro, versando lo zucchero con l’altra mano. Ma quando il vento soffiò, fu lui a volare su nel cielo, i contorni del corpo sfilacciati come una nube, leggero più dell’aria, e da quell’altezza vide tutto il mondo e riconobbe, in un puntino che s’affannava per le strade del luna park, sua madre che lo cercava.

La chiamò, ma le nuvole non hanno voce e così pianse e quelle sue lacrime piovvero giù a bagnare la terra. Qualcuno aprì un ombrello, ma la donna invece accolse la pioggia autunnale alzando il viso disperato al cielo. Sentì l’acqua caderle sul volto, scendere in rivoli fino alla bocca, ne avvertì il sapore dolciastro come zucchero filato e allora seppe che il suo Zefi era lassù, nube fra le nubi, mai più con lei, mai più bambino, ma forma eterea sospinta dal vento.

***
«Ma non ti alzi, stamattina?»

Riconobbe la voce fra le immagini confuse della sua mente e sentì i rumori della città fuori della finestra e la vita che s’era già ridestata in quel lunedì di ottobre.

Sbatté le palpebre, sbadigliò, si stropicciò gli occhi e guardò sua madre. Sorrise.

«Che sogno strano che ho fatto!», disse. «Ero diventato una nuvola e mi sentivo leggero leggero.»

«Tutti i sogni lo sono», disse la donna. «Forza, ché la colazione è quasi pronta», aggiunse, prendendolo per una mano.

Restò ammutolita e senza parole rimase anche il piccolo Zefirino vedendo la sua mano staccata dal corpo e con l’estremità sfilacciata. D’istinto la donna la rimise al suo posto, come se suo figlio fosse uno di quei giocattoli smontabili che si trovano nelle uova pasquali. Non seppe perché, fu la prima cosa che le venne in mente e agì senza neanche pensare a ciò che stava facendo, sentendo addosso tutta la colpa di quell’insolita mutilazione.

«Mamma», disse il bambino, che adesso muoveva la mano come se nulla fosse accaduto. Forse sto ancora sognando, pensò e cercò di aprire gli occhi per svegliarsi.

«Zefi», disse la donna, sfiorandogli appena la mano che aveva riattaccato.

Il bambino sentì quella voce, riconobbe il tono preoccupato e capì che era sveglio, allora, che la mano era stata davvero staccata e riappiccicata al corpo come se fosse la cosa più naturale al mondo.

«Ma come hai fatto?», chiese.

«Non lo so, io…», rispose la donna, senza sapere cosa dire. «Ti ho fatto male?»

«No, non ho sentito niente. Ma forse stiamo sognando, mamma! Che bello, sto facendo un sogno insieme a te!»

«Ma no, Zefi, che dici? Io non sto sognando, è mattina e devi andare a scuola. Dai, alzati» e fece per prenderlo un’altra volta, tirandolo per le mani…

… che le restarono in mano, mentre il bambino guardava sua madre sconvolta e le sue mani non più attaccate ai polsi, che gli ricordavano ora i pezzi di zucchero filato mangiato il giorno prima.

«Ma mamma…», disse e le prime lacrime cominciarono a fluire come un piccolo rigagnolo che fuoriesca da una perdita, costante e lento. «Che mi sta succedendo, mamma?»

«Io…», disse e provò, come prima, ma ora consapevolmente, a riattaccare le mani al figlio.

Ora Zefirino mosse le dita e sembrò più tranquillo. Smise perfino di piangere.

«Funzionano», disse.

«Bene», disse la donna, rincuorata.

«E se mi si staccano ancora e non vanno più a posto? E se qualcuno mi stacca un pezzo e non me lo ridà più?»

«Oggi non vai a scuola, Zefi, ti porto dal dottore», disse la donna. «Vedrai, avrà una medicina che ti farà guarire subito». Ma non ne era per niente convinta.

«È colpa di quello zucchero filato, mamma?»

«Che c’entra lo zucchero filato?»

«Ma hai visto che è successo? Sembravano come lo zucchero che faceva quel signore.»

La donna rifletté sulle parole del bambino. Non aveva dovuto far forza per staccare le mani al figlio, erano andate via subito. Lei aveva messo la forza necessaria per tirarlo su, è vero, ma ricordò che in effetti era eccessiva. Guardò il bambino e decise di fare un esperimento. Allungò una mano e prese il naso di Zefirino, poi lo tirò via mettendoci la stessa forza per staccare un pezzo di zucchero filato.

E il naso venne via.

«Mamma», si lamentò il bambino. «Adesso come faccio a respirare?»

La donna riattaccò il naso.

«Ecco», disse. «No, non andiamo dal dottore. Andiamo a cercare quel signore al luna park, invece.»

***
Uscirono, camminando lentamente e tenendosi a distanza da chiunque prima di arrivare all’auto. La donna voleva evitare che qualcuno, riconoscendoli, salutasse Zefirino abbracciandolo e gli restasse in mano un pezzo di spalla o di testa. Sarebbe stato imbarazzante, soprattutto da spiegare.

Non fu possibile vestire il bambino – la donna aveva temuto che sfilando il pigiama suo figlio si fosse spezzettato in più punti – e così gli buttò sopra il cappotto e gli fasciò i piedi per non farlo camminare scalzo.

Vedere suo figlio, il suo bambino, senza più peso e solidità, sfibrarsi davanti a lei a un semplice tocco, le diede uno sconforto e un dolore mai provati prima. Era diventato soffice, quasi etereo come una nube.

Prima di uscire la donna aveva controllato il cielo. Era una bella giornata, per fortuna, non avrebbe piovuto, ma per precauzione portò con sé la mantellina del figlio. Sapeva già cosa sarebbe successo con la pioggia: il suo Zefi si sarebbe sciolto come lo zucchero filato in bocca.

Arrivarono al luna park. Il cancello era aperto e dentro si vedeva un via vai di gente al lavoro. L’orario di apertura era previsto di lì a un paio d’ore, ma lei e Zefirino non dovevano certo montare sulle giostre. Si diressero al punto opposto, dove stava la bancarella di quello strano tizio così gentile e misterioso.

Lo trovarono lì, intento a pulire il suo calderone. Quando l’uomo li vide, il suo viso s’illuminò di un’intensa contentezza.

«Ma buongiorno, signori», li salutò.

«Lei», cominciò la donna, puntandogli un dito contro, ma non seppe come proseguire. Non poteva certo dirgli che suo figlio adesso poteva essere fatto a pezzi e rimesso a posto a causa del suo zucchero filato.

«So perché siete qui, signora», disse l’uomo, sfregandosi le mani. «Adesso suo figlio non è più come gli altri bambini. Non è più in carne e ossa, ma di lana fatata.»

«Che… che cosa vuole dire?», chiese la donna, la voce tremante per la rabbia e la disperazione. «Mi ridia il mio bambino.»

«Io vi avevo avvertito, cara signora. Ricorda le mie parole?»

La donna ripensò agli eventi della sera prima. Che cosa aveva detto quell’uomo quando erano arrivati alla sua bancarella?

Puoi mangiare ciò che accetti come tuo divenire.

E il suo Zefi aveva scelto di mangiare quello zucchero filato. E adesso era diventato…

No, non poteva crederlo. No, era tutto uno scherzo, uno stupido scherzo da luna park.

Chi da me mangia quello zucchero, da me torna di filato.

E quella mattina erano tornati tutte e due di corsa da lui.

Certo, non potevano fare altrimenti, chiunque sarebbe tornato lì.

«Mamma», disse Zefirino, che fino a quel momento era stato zitto. «Mi guarisce il signore?»

«Piccolo», s’intromise l’uomo, «io farò di te l’attrazione principale del luna park. Potrai andare su ogni giostra quanto vorrai e senza mai pagare. Perché questa, da ora in poi, sarà la tua nuova casa. Questa, piccolo Zefi, sarà da ora in poi la tua nuova vita.»

«Ma cosa dice…?»

«Sto dando a suo figlio una possibilità di vivere, signora», rispose il venditore, lo sguardo accigliato. «O preferisce che accidentalmente il suo Zefi perda un pezzo, magari la testa, per sempre? O cada in una pozzanghera e si sciolga?»

«Io…»

«Mamma…»

«Giostre, Zefi», continuò l’uomo. «Giostre per tutta la vita. E niente più scuola e libri. Solo giochi e divertimento. Vacanza per sempre in cambio di poche ore di lavoro qui da me. Avremo un tendone tutto per noi e chiunque verrà a vedere il bambino filato!»

***
GRANDE SPETTACOLO
DEL LUNA PARK
IL PRIMO BAMBINO AL MONDO FATTO DI LANA FATATA!
Tutti i giorni dal pomeriggio alla sera
IL BAMBINO FILATO
sarà a disposizione del pubblico

Il cartello era affisso già dall’entrata del luna park. Altri erano stati attaccati in vari punti del parco dei giochi, con le frecce che ne indicavano la direzione.

L’uomo aveva fatto montare il tendone proprio accanto al banco dello zucchero filato. Adesso, però, c’era una vecchina a ruotare il bastoncino nel pentolone.

Zefi era ancora in pigiama, non era stato possibile cambiarlo d’abito. Così l’uomo aveva dovuto tagliarlo con un paio di forbici, ma non poteva certo lasciare il piccolo in mutande.

«Io mi vergogno!», aveva protestato il bambino.

Così all’uomo venne un’idea. Mise una fascia colorata attorno alle mutandine e alcune stufe dentro il tendone. Ora il bambino filato aveva una maschera e non avrebbe sentito freddo.

«Da questa parte, bambini e signori!», urlava l’uomo, vestito di tutto punto, con un grosso cilindro in testa. «Venite a fare a pezzi il bambino filato! Divertitevi a ricomporlo come volete. Ogni volta un bambino diverso!»

La folla s’assiepava davanti alla grossa tenda a strisce e l’uomo incassava soldi a palate. Ognuno poteva stare solo cinque minuti a staccare pezzi al bambino filato.

L’uomo era soddisfatto.

La donna venne a trovare Zefirino ogni giorno – per lei l’entrata era gratis – e parlava col figlio ogni minuto possibile. La mattina, prima degli spettacoli, e la sera, dopo la chiusura, se ne andavano a spasso per il luna park.

«Ti trovi bene, Zefi?»

Passeggiavano lungo una stradina alberata, dove un piccolo laghetto dava ospitalità a un gruppo di pesci rossi e alcuni gatti sonnecchiavano al sole autunnale. Zefi alzò le spalle. Era un mese, ormai, che abitava al luna park. I primi giorni era stato divertente, ma anche abbastanza drammatico. Vedersi fare a pezzi e poi rimontare a casaccio non è certo un’esperienza piacevole. Ma poi ci aveva fatto l’abitudine, tanto che alcune volte, secondo la necessità, si staccava da solo qualche pezzo e lo attaccava da un’altra parte. Una volta, non arrivando a prendere un barattolo di marmellata, si era staccato un braccio e lo aveva appiccicato all’altro, così da raddoppiarne la lunghezza. Spesso, invece, quando girava per il parco da solo dopo il lavoro, si toglieva un occhio per metterlo dietro la nuca, così da poter controllare se qualcuno si avvicinasse per fargli uno scherzo e staccargli qualche pezzo.

«Così», rispose alla madre.

«Ti trattano bene, vero?»

Il bambino guardò sua madre. «Mi fanno a pezzi, mamma», disse. «Mi mettono le braccia al posto delle gambe o le dita sulla fronte come se sono corna o gli occhi al posto della bocca e la bocca invece sullo stomaco e poi ridono tutti.»

La donna sentì le lacrime uscire e il dolore sopraffarla. Era stata da un medico a parlare dello stato in cui versava suo figlio, ma l’uomo l’aveva guardata con compassione e le aveva prescritto una lunga lista di psicofarmaci.

A scuola le avevano fatto mille domande, ma tanto la voce del bambino filato fatto di lana fatata s’era sparsa per tutto il paese. Furono proprio i compagni di classe a entrare per primi nel tendone per vedere il loro amico in forme mai viste prima.

«Adesso devo rientrare a casa, Zefi», disse e due rivoli di lacrime scesero giù per le guance perdendosi oltre il mento. «Ma domani torno.»

Il bambino le sfiorò il viso, avvertendo una strana sensazione a quel tocco umido, una sensazione che non provava da tanto. Non aveva più bisogno di lavarsi, infatti, e mangiava solo zucchero e altri dolciumi. Sentì come se le dita si sciogliessero, anche se di un infinitesimo. Dentro di sé sorrise.

Salutò sua madre e tornò al tendone. Non c’era nessuno e Zefirino si chiuse nell’angolo ricavato all’interno e in cui dormiva, la sua nuova camera. Si sdraiò sul letto e pensò al domani.

Sarebbe stato un giorno diverso, lo sapeva.

Perché aveva preso una decisione.

***
Il tempo minacciava pioggia. L’uomo svegliò Zefirino alle sei, come tutte le mattine. Doveva aiutarlo a preparare il numero del pomeriggio e alle otto sarebbe arrivata sua madre. Il bambino si alzò, fece colazione con una mela candita e due grosse caramelle gommose e lavorò fino alle 7,30, poi uscì dal tendone senza farsi vedere. Con quei nuvoloni neri che gironzolavano nel cielo l’uomo non gli avrebbe mai permesso di andar fuori.

Tirava vento. Per fortuna in quella parte del luna park c’erano sempre pochissime persone, si riempiva solo in occasione dello spettacolo del bambino filato. Nessuno lo vide allontanarsi e andare alla fontana col laghetto. Zefirino si appoggiò alla ringhiera e guardò i pesci prigionieri dell’acqua. Come lui lo era del parco dei giochi. Costretti a restare rinchiusi per divertire gli altri.

Il vento aumentò e il bambino sorrise. Ricordò il sogno che aveva fatto la notte in cui s’era trasformato in lana fatata e la fabbrica delle nuvole. Aveva visto sua madre cercarlo e aveva pianto. Si era sciolto come zucchero filato in bocca.

Si guardò attorno. Nessuno, era completamente solo in quel punto e a quell’ora. Si tolse la fascia colorata e infine, dopo aver lanciato un ultimo sguardo per sicurezza, si sfilò anche le mutandine. Era nudo, adesso. Una piccola massa di soffice lana fatata.

Si diede un pizzico su una gamba e un batuffolo zuccheroso gli restò in mano. Lo lasciò andare al vento e quel pezzetto di Zefirino svanì nell’aria.

La fabbrica delle nuvole.

Adesso doveva tenersi strettamente alla ringhiera con tutte e due le mani, altrimenti il vento l’avrebbe sollevato e portato chissà dove.

Nel cielo.

Assieme alle nubi.

Staccò una mano e una folata d’aria lo fece ondeggiare come una bandiera. Si lasciò cullare così per qualche minuto, poi allentò la presa dell’altra mano e un soffio di vento lo portò su, sempre più su, finché non fu più possibile distinguerlo dalle nubi.

Quando la donna arrivò al tendone, non trovò Zefirino ad attenderla come sempre. Chiese all’uomo dove avesse mandato suo figlio, ma lui rispose che con quel tempo il bambino sapeva di non poter uscire. Forse era in camera sua?

Non lo trovarono.

«Tornerà, magari s’è nascosto per farle una sorpresa», disse, lasciandola sola.

La donna cominciò a vagare per il luna park, chiamando a voce alta il nome del figlio, ma nessuno le rispose. Quelli che la incontravano le lanciavano un’occhiata incuriosita e passavano oltre.

Iniziò a piovere. Dapprima una pioggerella fine, che le accarezzò i capelli quasi senza bagnarla. Poi si trasformò in un temporale che la inzuppò in pochi minuti. Ma la donna continuò a cercare il bambino, urlando per vincere il rumore dell’acqua che cadeva giù.

«Zefiiiiii!»

Zefirino, in mezzo alle nuvole, riconobbe sua madre. La vide correre di qui e di là, chiamarlo a gran voce, cercarlo disperata fra i tendoni e le bancarelle silenziose. Provò a chiamarla, ma si ricordò che le nubi non potevano parlare, ma solo piangere. E così, in quell’attimo di tristezza e solitudine, pianse tutta la nostalgia di sua mamma e della vita che aveva prima, della scuola e dei compagni, dei giochi e dei momenti di felicità che non avrebbe più riavuto. Pianse fino a consumarsi, fino a sciogliersi in gocce di pioggia zuccherosa.

La donna cadde stremata in ginocchio sul terreno fradicio, arresa all’impotenza e alla fatalità del destino. Alzò gli occhi al cielo e accolse quella pioggia che avrebbe lavato via le lacrime della sua disperazione. Sentì l’acqua colpirle il volto e aprì la bocca e il sapore di quella pioggia le ricordò qualcosa che aveva mangiato tempo fa, tanti tanti anni addietro, quand’era bambina, quando aveva l’età di suo figlio e suo padre le aveva comprato lo zucchero filato.

Era dolce quella pioggia.

Allora capì.

Capì che non avrebbe mai più rivisto suo figlio, il suo Zefi divenuto un bambino filato, il suo Zefi che portava a scuola e che adesso pioveva giù con quella pioggia fatata e dolciastra nel suo ultimo addio.

«Ciao, Zefi», disse in un sussurro e le parve che dal cielo, da lassù, dove le nubi si accalcavano una sull’altra spremendosi come spugne imbevute, una vocina rispondesse al suo saluto.

O forse fu solo il sibilo del vento.

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