Vita in una bottiglia

di: Daniele Imperi

Quando il signor T, quella mattina, uscì di casa per recarsi in ufficio, non pensava che quel giorno avrebbe perso il lavoro e cambiato vita per sempre. In realtà era da un po’ di tempo che quell’incarico gli era diventato pesante, ma non per la sua monotonia, né per lo scarso interesse che cominciava a provare per quell’ambiente.

Era per la mancanza di trasparenza.

Il signor T lavorava nella Banca di Boscamaro e col suo direttore, il Cavalier Ferrigno Mangiaterra, non aveva certo un buon rapporto. Più d’una volta il signor T s’era lamentato dei comportamenti dei colleghi e della filosofia della banca. I contratti che i clienti firmavano erano a esclusivo vantaggio della banca stessa ed erano scritti in modo tale da far cadere in errore anche il più sveglio della città.

«Faccia il suo lavoro, signor… non ricordo mai il suo nome», gli rispondeva sempre il direttore. «E non si curi di ciò che è al di fuori delle sue mansioni». E il signor T se ne tornava nel suo ufficio, accompagnato dai sorrisi dei colleghi.

La mattina del primo febbraio il signor T si recò di buon’ora alla banca, come ogni giorno. Entrato in ufficio, trovò sulla scrivania alcuni documenti da archiviare. Li lesse, come sempre faceva prima di riporli nei faldoni, e quello che scoprì fu troppo per la sua pazienza. Si trattava di un esproprio. Uno dei suoi concittadini aveva perso la casa, grazie alle oscure manovre del Cavalier Mangiaterra.

L’uomo prese i documenti e andò immediatamente dal direttore. Bussò alla porta e, senza attendere l’avanti, entrò e salutò con un distaccato buongiorno.

«Buongiorno, signor… non ricordo il suo nome», rispose come al solito il Cavalier Mangiaterra.

«Vorrei parlarle di questo documento di esproprio, signor direttore», disse il signor T, dopo aver inspirato profondamente per farsi coraggio.

Il cavaliere sorrise, con quella falsa affabilità con cui si rivolgeva ai sottoposti. «Che cosa non le è chiaro, signor Tal dei Tali?» Era quello uno dei modi con cui il Cavalier Mangiaterra chiamava il signor T. Ricordava che il cognome di quell’impiegato così fastidioso cominciasse con la lettera “T”, ma il resto della parola proprio non voleva entrargli in testa. Così gli aveva affibbiato quel tal dei tali d’uso comune. Il signor T, per il direttore della Banca di Boscamaro, era un anonimo come tanti altri.

«Beh… non mi è chiaro il contratto che fate firmare ai clienti, ma avevo già sollevato questo problema. Riguardo all’esproprio, non si è chiesto dove andrà a vivere quella famiglia?»

Il Cavalier Mangiaterra alzò un sopracciglio, aprendo le mani e congiungendo i polpastrelli. Stava perdendo la pazienza e il signor T lo sapeva. Conosceva bene quella posa. La teatralità del direttore era rinomata fra gli impiegati.

«Le sembra che sia affar mio, signor Tal dei Tali» e qui il cavaliere calcò con forza quel soprannome, come a volerlo incidere nell’aria, «dove la gente di questa città decida di abitare?»

«Immagino di no, signor direttore», rispose il signor T, meravigliandosi della sua calma, «ma è affar mio, come onesto cittadino o come, se preferisce, semplice essere umano, che si rispettino la legalità e le persone. La gente è scontenta della banca e io, lavorandovi, mi prendo la responsabilità di questo malcontento».

Il Cavalier Mangiaterra si alzò dalla sua comoda poltrona rivestita di pelle, allargò le braccia e poggiò le mani sulla scrivania, curvandosi leggermente verso quel minuscolo impiegato venuto nel suo regno a fargli la predica. Adesso, pensò il signor T, aveva decisamente perso la pazienza.

«E allora, signor Non-ricordo-il-suo-nome, vorrà dire che la sollevo da questa gravosa responsabilità. Passi pure dall’Ufficio del personale a sbrigare le pratiche del suo licenziamento. D’altronde, la banca non ha più bisogno dei suoi servigi, lei è da tempo diventato un ramoscello secco e noi qui abbiamo bisogno di corposi rami pieni di linfa vitale. Sono convinto che i cittadini di Boscamaro saranno ben disposti verso di lei, ora che non è più responsabile del loro scontento».

Il sarcasmo del direttore, in quell’occasione, fu davvero fuori luogo e tempo dopo l’uomo ebbe a pentirsi di quella sua azione così precipitosa.

Il signor T accolse l’annuncio con gran sollievo. Preferì non rispondere al direttore. Uscì, anzi, senza salutare né chiudersi la porta alle spalle. Raggiunse l’Ufficio del personale, già avvisato dal direttore, e firmò i relativi documenti. Poi tornò nella sua stanza, prese il cappotto e uscì per l’ultima volta dalla banca.

L’aria era fresca e il signor T respirò a pieni polmoni. Si sentiva sollevato e non solo dall’incarico. Quello era un nuovo giorno, il primo della sua nuova vita. Mille idee nacquero nella sua testa, tutte insieme, affollandosi, come se fino a quel momento il suo cervello fosse rimasto sopito e si fosse risvegliato ora, alla rottura d’un qualche incantesimo. Il signor T era strabiliato.

Con passo svelto si diresse al parco e sedette su una panchina. Doveva fare ordine nella sua testa. C’erano delle priorità da rispettare. Così chiuse gli occhi e si concentrò su quella massa disordinata e mal organizzata di pensieri, frugando e vagliando, finché, dopo un paio d’ore, aveva finalmente le idee chiare. Sì, adesso nella sua testa era tutto perfettamente in ordine, come se per la prima volta nella sua vita sapesse cosa fare.

Per prima cosa c’erano da sistemare quel pover’uomo e la sua famiglia. Avevano bisogno di una casa. Il signor T sorrise, perché aveva già trovato una soluzione. Gli avrebbe regalato la sua. In fondo stava per cambiare vita e gli pareva logico dover cambiare anche casa. Sì, quella era un’ottima idea. Poi avrebbe cercato una sistemazione per lui. Voleva vivere fuori Boscamaro, appena oltre le ultime case della città, dove gli alberi crescevano liberi e l’aria profumava di fiori.

Si alzò dalla panchina e fece ritorno a casa. Per due giorni interi non fece altro che preparare scatoloni per il suo trasloco. I pochi abiti che solitamente indossava entrarono tutti in due grosse scatole, ma i libri… quelli furono un bel problema! Ne possedeva almeno diecimila, dove li avrebbe messi? Decise di pensarci in un secondo tempo.

La mattina del terzo giorno uscì che era appena sorto il sole. Boscamaro dormiva ancora, le strade erano silenziose e vuote. Il signor T passeggiò fino ai confini della cittadina e vagabondò senza meta per un paio d’ore fra gli immensi faggi e sui sentieri ombreggiati. Camminò e camminò finché, d’un tratto, trovò ciò che stava cercando.

La sua nuova casa.

Al di là del sentiero, proprio sotto un enorme faggio, una bottiglia di vetro stava riversa su un tappeto di foglie secche. Non aveva tappo e dentro, eccetto polvere e un po’ di terra, non c’era altro. Non ci sarebbe stato nulla di strano, se non che la bottiglia era di dimensioni ciclopiche. Il signor T non credette ai propri occhi. Era una comune bottiglia di vetro, come se ne vedono in tutte le case. L’etichetta era sparita da tempo e il vetro appariva macchiato in più punti. Se avesse contenuto del vino o forse qualche liquore, il signor T non seppe dire.

Con un certo timore reverenziale si avvicinò all’insolito oggetto. Allungò una mano a toccarlo, sfiorandone la superficie sporca. Poi, con le nocche, picchiettò a saggiarne la consistenza. Eh, sì, era proprio una bottiglia. Gigantesca. L’imboccatura superava i due metri di diametro, più che sufficiente per il passaggio. Il collo andava dritto per circa quattro metri. Ne avrebbe ricavato un bell’ingresso, in cui sistemare una prima libreria, e avrebbe aggiunto delle scale esterne per poter entrare e qualche altro gradino alla fine dell’ingresso. L’intera bottiglia misurava quasi trenta metri in lunghezza. Era perfino più grande della sua vecchia casa.

Il signor T era felicissimo. Quel giorno stesso, decise, si sarebbe trasferito nella bottiglia. Era il luogo ideale per lui, una casa trasparente come la sua anima. Non avrebbe avuto bisogno di finestre né di lampadari, poiché avrebbe goduto per tutto il giorno della luce del sole. Magari avrebbe dato una tinta alle pareti del bagno… sì, pensò il signor T, forse la decenza e il comune senso del pudore richiedevano quell’operazione.

Allegro come non lo era più stato dai tempi della fanciullezza, il signor T trotterellò fino alla sua vecchia casa. Aveva un trasloco da cominciare e una comunicazione da dare.

Prima diede la precedenza alla comunicazione. Si recò dalla famiglia che aveva ricevuto l’esproprio e che di lì a un mese si sarebbe trovata in mezzo alla strada. Dovette ripetere cinque o sei volte che aveva deciso di regalar loro casa sua, prima all’uomo, poi a sua moglie, poi al figlio maggiore, poi alla bambinetta di 5 anni, quindi nuovamente all’uomo e forse un’ultima volta alla donna. Ma era proprio sicuro il signore che aveva trovato un nuovo alloggio?, aveva chiesto l’uomo per l’ennesima volta. Certo, aveva risposto il signor T. E non si sarebbe offeso il signore se quella povera famiglia l’avesse aiutato nel trasloco?, aveva chiesto di nuovo la donna. Ne sarei veramente grato, aveva risposto ancora il signor T.

Quando tutti quanti si convinsero che avrebbero ricevuto una nuova casa e gratis e che avrebbero potuto dare una mano nel trasloco, il signor T li salutò e si recò dal notaio per formalizzare il passaggio di proprietà. Poi, assieme ai nuovi amici, cominciò a traslocare e a dare una ripulita a quel vetro così sporco.

Occorsero alcuni giorni per trasportare tutto nella bottiglia, ma il signor T, come aveva deciso, sin dal primo occupò la sua nuova abitazione. Risvegliarsi lontano dal caos cittadino e dalla Banca del Cavalier Mangiaterra fu una soddisfazione come poche.

Quando ogni cosa fu finalmente sistemata nella bottiglia, accatastata senza un ordine preciso, a dire il vero, il signor T andò in falegnameria e si fece costruire dei pannelli di legno per creare le stanze, dando precise istruzioni affinché due lati delle tavole fossero curve, per adattarsi al soffitto e alle pareti tonde della bottiglia. Chiese inoltre una porta di forma circolare a due battenti, più altre di forma rettangolare per gli interni. Infine delle assi per il pavimento e per un contro soffitto, che l’avrebbe riparato dal sole, e tre scalini per l’esterno e tre per l’interno.

Il falegname fu abbastanza sorpreso da quella richiesta ma, quando si recò col signor T nel punto in cui sorgeva la gigantesca bottiglia, convenne anch’egli che pannelli e porta non potevano essere costruiti nelle forme consuete.

Nel giro di dieci giorni il falegname preparò tutto il materiale e montò le assi nella bottiglia. A quel punto il signor T tinteggiò di bianco la parete del bagno, lasciandone scoperta una piccola porzione per ricavarne una sorta di finestra, su cui applicò delle tendine. Poi cominciò ad arredare la sua nuova casa.

I giorni trascorsero veloci e felici. Il signor T era sempre più soddisfatto della sua nuova vita e si godeva le comodità e la tranquillità di quella dimora fuori del comune. Ogni tanto riceveva visite da qualcuno di Boscamaro che, avendo saputo del suo trasferimento, aveva deciso d’andarlo a trovare. «Questa casa è un portento!», esclamava qualcuno. «Una bottiglia ciclopica! Chi l’avrebbe mai detto?», si meravigliava qualcun altro. E il signor T sorrideva compiaciuto.

La notizia di quell’enorme bottiglia nei pressi della città giunse un giorno al Cavalier Mangiaterra, che non l’accolse con entusiasmo, al punto che decise di agire. Il solo pensiero che quel minuscolo ex impiegato della sua Banca potesse vivere senza problemi, adesso che appunto non era più sotto i suoi ordini, lo rendeva furioso. Non che di norma fosse una persona gentile e cortese, ma adesso era diventato davvero intollerabile. Prese a camminare avanti e indietro nel suo ufficio, una mano dietro la schiena e l’altra a reggere il mento, nella posa teatrale del gran pensatore. Dopo aver percorso qualche centinaio di metri in tondo e aver consumato parte del pavimento, si fermò ed esclamò «Eureka!»

Aveva trovato la soluzione.

Uscì immediatamente dalla Banca, annunciando che sarebbe stato fuori l’intera mattina, e si diresse al Municipio. Cercò del Comandante dei Vigili Urbani e lo trovò.

«Vorrei denunciare un cittadino di Boscamaro che vive in una casa che non gli appartiene», disse il Cavaliere.

«Ah, che comportamento deplorevole! Venga, venga Cavaliere, ché sistemiamo subito la faccenda», disse il Comandante. L’ufficiale si fece dire esattamente dove abitasse e chi fosse l’uomo e il Cavaliere apparve un po’ disorientato. Non sapeva dove abitasse, del resto. Poteva forse dire al Comandante che si trattava d’una bottiglia? E poi come si chiamava quel fastidioso impiegato che aveva lavorato per tanti anni nella sua Banca? Il Cavaliere proprio non lo rammentava.

«Dunque, Cavalier Mangiaterra», fece il Comandante, «lei non sa né dove abiti né come si chiami il cittadino che lei sostiene viva in una casa non sua… dico bene?»

«Proprio così, Comandante».

L’ufficiale si tolse il cappello d’ordinanza e si grattò la testa pelata. «È un affare assai strano», disse. «Come vuole che facciamo a trovarlo?»

«Oh, ma è facile. Vi basterà andare fuori città e seguire il sentiero che porta alla faggeta. In pochi minuti troverete casa sua».

«Ma questo cambia tutto, Cavaliere. Non si può tirar su una casa nel bosco senza licenza e qui nessuna licenza è stata richiesta! Provvederò subito».

Il Comandante radunò subito alcuni agenti e, assieme a loro, si diresse in auto fuori città. Individuò il sentiero che portava al bosco di faggi e fece cenno alla squadra di seguirlo, deciso a scovare quel cittadino che si faceva beffe della legge. Camminarono per circa un’ora e il Comandante maledisse nella sua mente il Cavaliere e i suoi pochi minuti per trovare la casa. Infine, quando anche gli agenti cominciarono a dare segni di stanchezza e nervosismo, il Comandante diede l’alt.

Non era sicuro di ciò che aveva visto.

Decise che era meglio far finta di niente. Dopotutto, non era certamente vero che a pochi metri da lui ci fosse una gigantesca bottiglia, che un paio di tendine colorate si intravedessero dal vetro, che al di là apparissero delle stanze e che dentro una di esse ci fosse un uomo, placidamente seduto su un divano a leggere un libro.

Fece l’atto di proseguire, quando fu fermato da uno degli agenti. «Comandante, ha visto?», chiese il vigile indicando la bottiglia.

«Cosa?», domandò l’ufficiale cadendo dalle nuvole.

«Come cosa? Ma… quella bottiglia. Quell’enorme bottiglia!»

«Bottiglia? Quale bottiglia?»

«Questa bottiglia!», disse un secondo agente, che nel frattempo s’era avvicinato alla bottiglia e vi aveva poggiato una mano.

A quel punto il Comandante non poté più far finta di niente. «Ah… quellabottiglia. L’inciviltà della gente è sempre la stessa. L’avrà gettata il solito maleducato».

«Ma… Comandante, che dice? Non vede quant’è grossa? Chi vuole che l’abbia gettata, un gigante?»

L’ufficiale decise che la farsa era finita o sarebbe passato per lo scemo del paese. «Colpa di questa strana luce», si giustificò, «che fa apparire le cose più inverosimili del normale». Quindi si avvicinò alla bottiglia e allungò anch’egli una mano a toccarla. «È vetro», aggiunse.

«Eh, già. È vetro», disse l’agente. «Che si fa, si bussa?»

«Una porta c’è», disse il Comandante, salendo gli scalini. «E se ci hanno messo una porta, è per poter bussare».

Toc! Toc!

Da dentro giunsero rumori ovattati. Un libro si chiuse. Un uomo ciabattò. Una porta si aprì. E il signor T, infine, apparve sull’uscio, salutando sorridente i suoi ospiti.

«Ehm, buongiorno, signore, e perdoni l’intrusione», disse il Comandante. «È soltanto una formalità ma, mmh, lei abita qui?»

«Buongiorno, Comandante», rispose il signor T. «Certamente, questa è la mia nuova casa».

Il Comandante si scambiò uno sguardo veloce con gli altri agenti, cercando qualche suggerimento che non arrivò. «E è da molto che ci abita?»

«Da circa un mese», rispose l’altro. «Ma volete entrare? Posso offrirvi dei biscotti».

«Oh, no, non si disturbi», l’interruppe il Comandante, lievemente spaventato dall’idea di esser chiuso in una bottiglia. «Siamo solo di passaggio. Era una formalità, come le dicevo. Grazie, grazie mille della collaborazione e arrivederci».

«Buona giornata a voi!», li salutò il signor T, rientrando in casa.

Durante il viaggio di ritorno il Comandante rimuginò su quella stramba faccenda. A una prima indagine, quel signore non aveva tirato su una casa in mezzo al bosco, poiché era chiaro che quella non poteva essere considerata una casa. Arrivato in Municipio, comunque, volle mettersi l’anima in pace e consultare la legge, per sapere che cosa si intendesse giuridicamente per casa. E da nessuna parte trovò scritto che una bottiglia potesse esserlo.

L’indomani mattina il Cavalier Mangiaterra tornò al Municipio per informarsi di come fossero andate le cose il giorno prima. Il Comandante gli rispose che quel cittadino non aveva commesso nessuna infrazione alla legge, poiché nessuna legge proibiva alla gente di vivere in una bottiglia.

Il Cavalier Mangiaterra avrebbe voluto mangiarsi il cappello e poco mancò che l’addentasse, mentre tornava, più nero d’un pezzo di carbone, in Banca.

Tuttavia il giorno dopo una nuova, grandiosa idea spuntò nella sua mente. Si alzò felice e rincuorato e, prima di recarsi in Banca, andò dritto al Municipio. Bussò all’ufficio del Comandante dei Vigili Urbani ed entrò.

«Vorrei denunciare una discarica abusiva nei pressi di Boscamaro», disse il Cavaliere.

«Ah, che scempio inconcepibile! Dica Cavaliere, dove ha trovato questa discarica e quanto è grande?», chiese il Comandante.

Il Cavaliere a quel punto apparve un po’ a disagio. In realtà non era una vera e propria discarica, cercò di spiegare al Comandante, ma si trattava d’una bottiglia gettata nel bosco e che ora deturpava il paesaggio, nella faggeta fuori città, lungo il sentiero.

«Dunque, Cavalier Mangiaterra», disse il Comandante, «non è una vera discarica abusiva, bensì una semplice bottiglia… dico bene?»

«Esattamente, Comandante».

L’ufficiale si mise in testa il cappello d’ordinanza e si alzò. «La ringrazio della segnalazione, Cavaliere», disse. «Adesso ci pensiamo noi».

Radunati nuovamente gli agenti, si recò in auto fin dove iniziava il sentiero che portava alla faggeta. Questa volta era preparato alla lunga camminata che portava alla misteriosa bottiglia. Sì, il Comandante aveva capito che il Cavalier Mangiaterra si riferiva alla stessa gigantesca bottiglia del giorno prima.

Giunto al punto in cui sorgeva quell’immenso vetro, il Comandante diede l’alt. Restò qualche minuto a osservare la bottiglia. Più la guardava e più gli piaceva. Il vetro era lucido e splendeva alla luce del mattino. In trasparenza si vedevano le stanze all’interno, arredate con gusto. C’erano libri ovunque, disposti in ordine su scaffali e librerie. Il Comandante avrebbe giurato che ve ne fossero anche in bagno. Non vedeva il proprietario, però. Forse non era in casa.

«Che si fa, Comandante? Si bussa?», chiese uno degli agenti.

«No, questa volta no», rispose deciso il Comandante.

Poi una voce alle loro spalle, allegra e gioviale, li salutò. «Buongiorno, Comandante! Ero in città a fare un po’ di spesa. Volete entrare?»

«Buongiorno a lei», rispose il Comandante. «No, la ringrazio. Passavamo di qui per caso, c’è stata una segnalazione per una discarica, ma evidentemente è stato uno scherzo di cattivo gusto».

«Allora arrivederci». E il signor T entrò in casa.

Il Comandante fece dietrofront e assieme ai suoi uomini tornò in Municipio.

Il giorno dopo, prima di recarsi in Banca, il Cavalier Mangiaterra passò di nuovo al Municipio per sapere se i Vigili Urbani avessero rimosso la bottiglia. Il Comandante gli rispose che il Comune non aveva i mezzi necessari per portarla via, troppo grossa per qualsiasi camion. Inoltre, non ingombrava il sentiero, poiché stava al di fuori di esso, e non deturpava il bosco, poiché gli alberi vi crescevano pochi metri più in là.

Il Cavalier Mangiaterra avrebbe voluto mangiarsi il Comandante stesso, questa volta, e poco mancò che lo mordesse su quella testa pelata, lucida come il vetro della bottiglia che tanto odiava. Non poté fare altro che tornarsene in Banca.

Ma la sua perfida mente continuò a lavorare, durante la notte, e il giorno dopo il Cavalier Mangiaterra si svegliò con una nuova idea. Questa volta il suo sorriso era bieco. Se avesse pensato prima a quella soluzione, avrebbe risparmiato tempo.

E così, prima di passare in Banca, si recò alla periferia di Boscamaro, fino al Vicolo Senza Nome, una via malfamata della città, talmente disastrata che il Municipio non le aveva assegnato neanche un nome.

Il Cavaliere aveva un po’ paura a camminare per quella stradaccia, ma si fece coraggio e proseguì, finché raggiunse un piccolo ponte in legno che scavalcava un fiumiciattolo puzzolente. Lo attraversò e sinistri scricchiolii l’accompagnarono dalla parte opposta. Quindi si fermò.

Tre ragazzini se ne stavano a bighellonare, chi a sonnecchiare con le mani in tasca, chi a fumare da una strana pipa e chi a lanciar ciottoli nell’acqua del fiume. Era la Banda dei Tira Sassi e quello era il suo territorio.

«Abbiamo visite», disse Calinio, il ragazzo che lanciava sassi.

«Già, c’è un manichino», constatò Marrancello, il ragazzo che fumava.

«Chiedetegli che diavolo vuole», ordinò Lanubio, il ragazzo che sonnecchiava.

Calinio si ficcò in tasca un sasso e si avvicinò al Cavalier Mangiaterra con aria strafottente. «Il capo vuole sapere che diavolo vuoi», chiese senza mezzi termini. Era il più piccolo dei tre e i suoi abiti avevano più buchi che stoffa. I capelli erano arruffati e sporchi, di un colore che un tempo era stato sicuramente biondo, anche se il Cavaliere non ci avrebbe giurato.

«Ho un lavoretto per voi, facile facile», annunciò il Cavaliere.

A quella parola anche Marrancello s’era avvicinato. «Che genere di lavoretto?», chiese, più sospettoso che incuriosito. Un tipo così elegante che arrivava fin nel Vicolo Senza Nome a chiedere della Banda era un fatto piuttosto singolare.

«Non siete la Banda dei Tira Sassi?», domandò retoricamente il Cavaliere. «Dunque, ho bisogno che tiriate un po’ di sassi».

«A chi?», fece Marrancello.

«Non a chi, ma a cosa», rispose l’uomo. «Dovete prendere a sassate una bottiglia e mandarla in frantumi».

«Tutto qui? Che fregatura c’è sotto?»

«Oh, nessun imbroglio», assicurò l’uomo. «La bottiglia è molto grande e di certo non si romperà al primo colpo. Ma se non ve la sentite…» e lasciò la frase in sospeso, aspettando che l’altro abboccasse all’amo.

«Chi, noi?», fece Marrancello, con tono risentito. «Hai sentito, Lanubio? Il manichino pensa che non ce la sentiamo» e scoppiò a ridere. Allora anche Lanubio, il capo, rise e infine, per non sentirsi da meno, rise anche Calinio.

Il Cavalier Mangiaterra era soddisfatto. I ragazzi avrebbero finalmente posto fine a quella odiosa bottiglia. In breve spiegò loro dove si trovasse, ribadendo che fosse molto grande, anche se non disse quanto grande, e si raccomandò di ridurla in minuscoli pezzi, tanto che fosse impossibile poterli incollare per ricomporla. I ragazzi ci avrebbero guadagnato un po’ di soldi. Prima d’andarsene, lanciò loro una moneta ciascuno come anticipo.

I ragazzini furono d’accordo e promisero che l’indomani mattina avrebbero preso a sassate la bottiglia. Avrebbero anche conservato un pezzo di vetro a testa, per trofeo, e un altro per il cliente, come prova.

Così, la mattina successiva, dopo che il sole s’era alzato e aveva fatto un po’ di strada nel cielo, l’intera Banda dei Tira Sassi si incamminò per assolvere alla missione affidatale. A passo di marcia, le tasche piene di sassi, chi fischiettando, chi guardandosi attorno a mo’ di guardia del corpo, chi fumando da una strana pipa, i tre ragazzini attraversarono il Vicolo Senza Nome e la zona periferica della città, entrarono nel centro di Boscamaro, che era già affollato, e ne uscirono diretti al sentiero per la faggeta.

Dopo circa un’ora la Banda trovò la bottiglia.

«Questa è una bottiglia davvero grande», disse sorpreso Calinio.

«Questa è una bottiglia davvero enorme», aggiunse stupito Marrancello.

«Questa è una bottiglia davvero gigantesca», sentenziò meravigliato Lanubio.

Ma lo sbalordimento per quell’oggetto così inverosimile durò ben poco. Il lavoro è lavoro, avevano un cliente da servire e non potevano perder tempo in chiacchiere. Così si ficcarono le mani in tasca, ne trassero un bel sasso tondeggiante, di quelli che si trovano nei fiumi, lisciati dallo scorrer dell’acqua, e diedero il via alla sassaiola.

Tonk! Tonk! Tonk!

L’uomo aveva detto loro che al primo colpo la bottiglia non si sarebbe rotta, così non si persero d’animo e lanciarono un secondo sasso ciascuno.

Tonk! Tonk! Tonk!

I tre ragazzi si guardarono negli occhi. Sei colpi andati a segno e neanche un graffio. Calinio allora decise di accorciare le distanze e da appena un metro lanciò un terzo sasso.

Tonk! Thud!

Il sasso rimbalzò sul vetro e colpì in pieno volto il ragazzino, che cadde a terra, urlando e piangendo dal dolore. Gli altri decisero che era meglio non tentare un altro lancio.

Il signor T, che quella mattina non era uscito, s’insospettì di quegli strani rumori sulle pareti di casa e, quando sentì qualcuno che urlava e piangeva, decise di dare un’occhiata. Quando uscì e vide i tre ragazzini, uno a terra e gli altri due che tentavano di soccorrerlo, si rese subito conto della gravità della situazione.

«Presto, portatelo dentro!», ordinò loro, ma nessuno dei tre si mosse.

«È una trappola», disse Marrancello.

«Capace che entriamo e ce le suona a dovere, quello», concordò Lanubio.

E intanto Calinio piangeva. Una macchia violacea s’era formata sulla sua fronte e, proprio al centro, del sangue usciva da un bel taglio.

«Insomma, volete che il vostro amico muoia dissanguato?», chiese adirato il signor T, che a dispetto del suo carattere docile cominciava a perder la pazienza.

«Chi ci dice che non ci farai prigioniero?», domandò Marrancello.

«Già», assentì Lanubio, «e poi ci impiccherai a uno di questi alberi?»

«La mia casa, come vedete, è trasparente», rispose il signor T, indicando la bottiglia. «Chiunque può vedere quel che succede all’interno».

I due ragazzi osservarono attentamente la casa e si fecero pensierosi. Persino Calinio aveva smesso di piangere. Adesso singhiozzava in silenzio.

«È una casa di vetro», disse Marrancello.

«Già», disse Lanubio. «È una bottiglia. Proprio una gran bella bottiglia».

«Chissà come ci si sta, là dentro», aggiunse Marrancello.

«Me lo sto chiedendo anch’io», disse Lanubio.

«Beh, ragazzi», si intromise il signor T, «c’è un solo modo per saperlo. Accomodatevi e portate dentro il vostro amico, così che possa medicarlo».

E così Lanubio e Marrancello, sorreggendo Calinio, fecero il loro ingresso nella bottiglia che avrebbero dovuto mandare in frantumi.

Il signor T medicò il ragazzino, dopo averlo fatto sdraiare sul suo letto. S’accorse anche delle condizioni, fin troppo evidenti, di quei tre piccoli sbandati e preparò loro un’abbondante colazione a base di latte, cioccolato, marmellata, frutta e una gran quantità di biscotti. Marrancello azzardò l’ipotesi del cibo avvelenato, ma gli altri due neanche lo sentirono, affamati com’erano, e presero a mangiare a quattro ganasce, presto imitati dal compagno.

Infine, frugando in un armadio, il signor T trovò vecchi abiti di quand’era giovane e glieli diede, ma prima, uno a uno, li mandò in bagno a lavarsi nella vasca che aveva riempito d’acqua calda e bagnoschiuma.

I tre ragazzini uscirono dalla stanza da bagno irriconoscibili. Un po’ si vergognavano, a dire il vero, poiché l’uomo a cui volevano fare a pezzi la casa li aveva soccorsi, nutriti e rivestiti da capo a piedi. Non riuscivano a guardarlo negli occhi e se ne stavano zitti e con lo sguardo a terra, come chi l’ha fatta grossa e è stato preso con le mani nel sacco.

Poi Calinio trovò il coraggio di parlare.

«In paese non ci riconoscerà nessuno, vestiti così», disse.

«Qualcuno si chiederà che fine ha fatto la famosa Banda dei Tira Sassi», disse Marrancello.

«La Banda c’è ancora», disse Lanubio, le mani ficcate in tasca e un’aria altezzosa in viso. «Ha solo cambiato il guardaroba. E se qualcuno avrà da ridire, si prenderà una bella sassata in testa».

Il signor T non poté fare a meno di sorridere a quella scena.

«Perché non siete a scuola, oggi?», chiese poi. I tre ragazzi non seppero rispondere a quella domanda. Per loro c’erano solo il Vicolo e il fiumiciattolo puzzolente che chiamavano Rigagnolo.

Il signor T capì che c’era tanto lavoro da fare con i tre ragazzini e si rimboccò le maniche. Quella mattina stessa li iscrisse a scuola, riuscendo a convincere il preside, e nei pomeriggi che seguirono diede loro lezioni sul programma scolastico che avevano perduto. Non fu facile all’inizio. Quelle tre pesti si distraevano in continuazione, non volevano saperne di tabelline e coniugazione dei verbi.

«A che mi serve coniugare un verbo?», chiese Calinio un pomeriggio, mentre scarabocchiava sul quaderno.

«E sapere quanto fa sei per nove?», chiese Marrancello.

«E sapere quello che è successo mille anni fa?», chiese infine Lanubio.

Il signor T non si perse d’animo. Aveva tutta la pazienza del mondo con quei tre piccoli monelli.

«Se saprete coniugare bene i verbi, diventerete più intelligenti e allora potrete amministrare la vostra banda meglio di adesso», disse il signor T, che aveva capito come far ragionare i suoi alunni.

Una lucina si accese nelle tre piccole menti. Gli sguardi si fecero d’un tratto più attenti.

«E se conoscerete tutte le tabelline… ebbene, chi mai potrà imbrogliarvi dandovi il resto sbagliato?»

Tre sopracciglia si sollevarono e sei paia di occhi sembrarono penetrare quello strano ometto.

«Infine», e qui il signor T fece una pausa d’effetto, «conoscere la storia vi farà imparare i segreti dei più potenti eserciti del passato e allora non sarete solo la banda più forte di Boscamaro, ma di tutta la nazione!»

Questo fu davvero troppo. I tre ragazzini s’alzarono ed esultarono, abbracciando il povero signor T che rischiò di essere soffocato da tutte quelle effusioni. Quel pomeriggio, e nei giorni a venire, nella grande bottiglia in mezzo al bosco e nella scuola di Boscamaro ci furono tre alunni modello.

E fu così che i ragazzi divennero grandi amici del signor T. Continuarono a far parte della Banda dei Tira Sassi, ma da quel momento decisero di tirar sassi soltanto a un certo direttore di Banca che li aveva imbrogliati con la storia della bottiglia.

Nel frattempo il signor T decise di riprendere a lavorare. Presto i suoi soldi sarebbero finiti e allora cosa avrebbe mangiato? È vero che un piccolo orto già cresceva nei pressi della bottiglia, ma non era sufficiente. Così decise di lavorare in proprio come Consulente bancario. Trasformò una delle sue stanze in ufficio e dal falegname della città si fece preparare un bel cartello di legno, che piantò vicino casa, a bordo sentiero. In questo modo si proponeva di offrire i giusti consigli ai cittadini di Boscamaro per non farsi imbrogliare dalla banca del paese.

L’idea si rivelò geniale. Ogni giorno il signor T ricevette gente, tanto da esser costretto a lavorare anche il sabato per poter accontentare tutti. Al Cavalier Mangiaterra ovviamente non piacque quell’iniziativa, che lo costrinse, in breve tempo, a rivedere tutti i contratti che proponeva ai propri clienti. Ma non poteva far niente.

In realtà un giorno tornò in Municipio per denunciare un certo cittadino che “lavorava abusivamente”, ma il Comandante dei Vigili Urbani lo liquidò senza neanche guardarlo in faccia. «Non è vietato dalla legge lavorare in casa propria, Cavaliere», gli rispose.

E così trascorsero gli anni. Il signor T lavorò finché divenne troppo vecchio per dedicarsi alla sua professione, quindi tolse il cartello da davanti casa e usò quel legno per il camino. Il Cavalier Mangiaterra continuò a odiare quell’omino che gli aveva creato tanti problemi, finché fu costretto anch’egli ad andare in pensione ma, non stando bene in salute, finì i suoi giorni in un ospizio lontano da Boscamaro, dimenticando perfino quale fosse il proprio nome. Però, per un puro capriccio della sorte, ricordò il nome di un suo ex impiegato, un uomo piccolo e fastidioso che aveva licenziato tanti anni prima. Morì con quel nome sulle labbra.

I ragazzi della Banda dei Tira Sassi si diplomarono e trovarono lavoro in città. Continuarono a lanciar sassi, per gioco, sulle acque sporche del Rigagnolo, con disappunto delle loro rispettive fidanzate. Di tanto in tanto tornarono alla bottiglia, a trovare l’uomo che tanto aveva fatto per loro.

Quando il signor T divenne così vecchio da non poter più passeggiare per le strade, si accordò col notaio di Boscamaro per lasciare la sua casa-bottiglia in eredità ai tre ragazzi che erano rimasti così affezionati a lui, Lanubio, Marrancello e Calinio. Poi si disse soddisfatto.

Una mattina uscì di casa e scese a fatica le poche scale. Si sedette sul primo gradino e restò a contemplare il paesaggio. Era passato tantissimo tempo da quando s’era trasferito nella bottiglia. Ricordò per un attimo le parole del Cavaliere, quando lo licenziò, e sorrise.

Si sentiva stanco. Era dimagrito molto, ultimamente, e con l’età s’era fatto ancor più piccolo di quand’era giovane. Restò lì seduto per tutto il giorno, finché le ombre della sera non scesero sulla campagna a render tutto più incerto.

Poi s’alzò il vento e il signor T guardò in cielo, dove qualche nuvola apparve timidamente. L’aria spirò più forte, riuscendo a scuotere quel piccolo corpo. Il signor T non aveva freddo e assecondò il vento, facendosi cullare e ondeggiando alle raffiche che l’investivano. Infine, lentamente, si alzò dallo scalino e fece qualche passo, là dove il vento infuriava con più forza.

Si voltò a guardare per l’ultima volta la grande bottiglia in cui aveva abitato e una lacrima sfuggì, perdendosi fra le rughe del viso. Era stata una bella vita, dopotutto, pensò, mentre il vento soffiava così forte da alzarlo da terra. Foglie secche turbinavano nell’aria, assieme a zolle e ramoscelli.

Era tempo d’andare, si disse, adesso che davvero era diventato un ramoscello secco. Sorrise di nuovo, ripensando alle parole che avevano accompagnato il suo licenziamento.

Poi si volse al vento, accogliendolo come un amico.

Lascia un commento