Serpente bianco

di: Luca Ricatti

Il serpente bianco scivolava tra le foglie, scivolava verso le radici della vecchia quercia, così silenzioso da non poter capire se era reale.

Per un attimo una lama di luce attraversò la crepa nello scuro sfasciato. Poi tornò il buio e un tuono fece tremare i vetri della finestra. Angela saltò a sedere nel letto strillando, tutta sudata.
«Li mortacci tua!», urlò il marito. Nonostante il fracasso del temporale, Oreste poteva dormire come un sasso e russare come un porco. Ma il grido della moglie l’aveva fatto sobbalzare.

La stanza da letto, nella casetta malmessa alla periferia di Roma, in mezzo alla campagna, era gelida. La brace nel camino s’era spenta da un pezzo.
«Ma che cazzo te strilli?»
«Sta bbono Orè, oddio che sogno c’ho fatto!». La donna si scostava nervosamente i capelli fradici di sudore dalla fronte e continuava ad ansimare. «Oddio, oddio, santa Madonna aiutame te!» continuava a ripetere. «Oddio, oddio!»

Oreste si forzò a voltarsi verso di lei, ma senza smettere di inveire:
«Ma che cazzo stai a ddì? Ma vvòi dormì, che te pijasse un córpo a te e a tutti l’antenati?»
«Orè ho sognato ‘n frate! M’ha detto na cosa! Oddio Santa Madonna! M’ha detto d’annà a scavà sott’aa quercia, quella indove ho visto er serpente!»
Un altro tuono fece tremare i vetri malfermi della finestra, così forte che entrambi si voltarono a guardare, temendo che si infrangessero a terra.

«Dice che indove ho visto er serpente ce sta da scavà, che ce sta ‘n tesoro!»
Oreste bestemmiò, continuando a fissare la finestra:
«Ancora co sto serpente? T’ho detto che nun c’era nessun serpente!». Poi cambiò espressione e si voltò verso la moglie. Il tono della sua voce si fece più mansueto:
«Un tesoro?»

Tutto era iniziato la notte prima, quando Angela s’era lamentata che la legna stava finendo e le notti erano fredde.
«Tocca procurasse quarche ciocco d’abbrucià, ossinnò se morimo congelati».
Ma i soldi per comprare legna non c’erano, così avevano deciso di andare fuori porta a raccogliere rami caduti in campagna. S’erano alzati prima dell’alba. Non avevano mantelli o cappotti, erano usciti con le coperte calate sulla testa e la carta del pane infilata sotto le giacche.
E questo è quello che era accaduto nel bosco.

Nel bosco

Il sole s’era alzato di qualche spanna sopra le colline, ma nella penombra degli alberi era ancora freddissimo. Angela camminava dietro, con un fascio di rami mezzi fradici tra le braccia. Oreste la precedeva e quando trovava qualche pezzo di legno che gli piaceva, si girava e lo caricava sulla moglie.

A un certo momento, Angela sentì un fruscìo tra i piedi.
«Oddio, ma che è?»
Cercò di guardare cosa l’avesse provocato, ma il fascio di rami tra le braccia le copriva la visuale. Poi vide spuntare qualcosa da sotto il manto di foglie secche.

Era lungo, molto lungo, completamente bianco. E strisciava.
Angela lanciò un grido, terrorizzata. La legna cadde a terra e alcune cornacchie s’alzarono in volo.
Il serpente bianco scivolò veloce tra le radici di una albero, una grossa quercia. E sparì.

Il Serpente bianco

«Ma che cazzo fai?» urlò subito il marito. «Razza de stupida!»
«Un serpente! Un serpente!». Angela era in una crisi isterica. «Grosso e tutto bianco! Un serpente! Oddio che schifo! Grosso, enorme! Oddio che schifo!»
«Ma ‘ndove?»
«Sotto a quella quercia! S’è ficcato là sotto! Ciaveva na testa grossa ccosì! Tutto bianco!»
«Porco boia, te sei rincojonita! Ma ‘ndó s’è mai visto ‘n serpente bianco? Così grosso, poi?» Tirò una sberla sulla nuca della moglie, che la fece barcollare.
«Ariccoji sta legna, li mortacci tua! Io me sò rotto li cojoni de sto freddo, me ne vado a casa».
«Io l’ho visto! era grosso ccosì! Numme sò rincojonita, l’ho visto pe davero!»

Arrivarono a casa che era quasi ora di pranzo. Mangiarono un tozzo di pane raffermo affettato e immerso in una brodaglia di fagioli. Poi il marito andò a passare il pomeriggio all’osteria. Diceva che con tutto quel freddo aveva bisogno di farsi un bicchiere di rosso decente, non quel bianco schifoso che aveva comprato Angela.
Lei rimase in casa a sistemare la legna, pulire tutta la terra che s’era sparsa sul pavimento e preparare la cena.

Oreste tornò che era buio da un pezzo. Non aveva bevuto un bicchiere di rosso, ne aveva ingollati una dozzina. E aveva perso soldi a carte. Era fradicio dalla testa ai piedi, perché mentre tornava a casa era iniziato il temporale.

Angela pensò che le avrebbe buscate. Di solito succedeva, quando lui beveva e perdeva a carte. Ma il marito era troppo stanco e dopo aver ingoiato un piatto di minestra bollente s’andò a rintanare sotto le coperte lise.
Lei aggiunse legna al camino. I rami fradici raccolti nel bosco stentavano ad accendersi e facevano fumo.
I vetri della finestra rotta presero a tremare per i tuoni e Angela s’infilò nel letto accanto al marito.
E sognò.
E torniamo al momento in cui Oreste le aveva chiesto spiegazioni riguardo il sogno e il tesoro.

Il frate bianco

«Ce stava sto frate ‘ncappucciato, vestito tutto de bianco. Diceva: Angela, Angela, va’ indove hai visto er serpente bianco! Scava na buca profonna, ce sta ‘n tesoro! Così diceva! E poi diceva da stamme zitta, che nullo devo dì a nessuno! È ‘n segreto!, diceva! Va’ a scavà e tutti li guai tuoi saranno finiti!.

«Dice che là cianno ammazzato uno, tanti anni fa. Che tredici banditi cianno nascosto er bottino de na rapina, che un viandante l’ha visti e allora l’hanno ammazzato. Dice che oo spirito de sto poro viandante è rimasto dentr’ar bosco, che gira sotto forma de serpente bianco.

«E dice che er bottino de sti banditi sta ancora là. E che me lo posso prenne, a patto che poi faccio dì messa pe sto viandante, tre vorte alla Basilica de San Pietro e tre vorte alla Chiesa de Sant’Agostino».

Hai visto mai?

Fuori della finestra scassata, il temporale continuava. Il vento e la pioggia infuriavano. Angela e Oreste stavano seduti nel letto, alla luce di un mozzicone di candela.
Il marito la guardò serio:
«Tutte fregnacce. È che ieri sera te sei ‘mbriacata. Te fa male er vino, a te, nun sei abbituata…

«… Però sai che c’è? Annà a vedé nun ce costa gniente. Domani matina annamo a scavà sta bbuca sotto a la quercia. Hai visto mai? Mó mettémose a dormì, che domani tocca svejasse presto».
«Ma così er frate scopre che t’ho riccontato tutto! E poi ha detto che ce devo annà da sola!»
«Ah. E vabbè, vorrà ddì che io me fermo ‘ndietro e la buca la scavi te. Poi si trovi er tesoro me fai ‘n fischio».
«E si er frate s’arabbia? Che sò tonti, sti spiriti?»
«Tu nun te preoccupà. Si è quarcosa ce parlo io, co sto frate. Mica ciò paura, io! Che annassero a cojonà la moje de quarchedun’artro, sti spiriti.
E mmó addòrmite».
«Orè!»
«Aridaje! Che vvòi?»
«Me sò ricordata na cosa».
«E che ccosa?»
«La voce der frate».
«Santamadonna, moje! Che ciavéva la voce de sto cazzo de frate?»
«Ciaveva che nun era la voce de ‘n frate. Era la voce de mi madre, pace all’anima sua».
«Ma che cazzo de frate è, co la voce de tu madre? Ch’er diavolo se la straporti, vecchia maledetta che era!»
«E che ne sò? Però era così, era ‘n frate, ma co la voce de mamma».
«Annate a morì ammazzati te, tu madre, er frate, er serpente bianco, li banditi, li viandanti e tutti li spiriti dell’antenati! Mó famme dormì un par d’ore. Svéjame prima dell’alba. Porco boia».

Angela s’appisolò poco dopo il marito. E sognò ancora.
Il frate vestito di bianco tornò a farle visita, ma stavolta non parlò. Fece segno di no con la testa e avvicinò il dito indice alle labbra, in segno di silenzio. Era un rimprovero. Poi si voltò e se ne andò.

La buca

Il bosco era ancora più freddo del giorno prima. L’aria era umida per il temporale della notte precedente, la terra era fangosa, il tappeto di foglie morte era melmoso.
«È quella la quercia», esclamò Angela. «È là che s’è ficcato er serpente bianco!»
«Ecco, allora va’ a scavà», borbottò il marito. «Io aspetto qua. Ossinnò er frate amico tuo se ‘ncazza».
L’uomo si sedette su un grosso sasso, stappò la bottiglia di vino che s’era portato da casa e ci si attaccò.

Angela proseguì da sola. Lei non aveva portato una bottiglia, ma una vecchia vanga, molto pesante. Si fermò davanti alle radici tra le quali aveva visto nascondersi il grande serpente bianco. Infilò la punta della pala nel terreno bagnato e iniziò a scavare.
Un urlo cupo emerse dalla terra.
Angela scappò di corsa dal marito.
«Io nun ho sentito gniente. Aritorna a lavorà!»
«Io nun ce vado, là! Ciò paura!»
Il marito le tirò una sberla violenta. Poi l’afferrò per il mento:
«Va’ a scavà sta cazzo de buca!»

Angela sentì altri versi spettrali. Scavava e piangeva per la paura.

Mani invisibili

Lavorò per oltre un’ora. Fece una buca così grande che ci sarebbe potuta entrare una bara.
Era stravolta e decise di chiamare il marito.
«Orè! Io nun trovo gniente! Nun gliela faccio più a scavà!»

Oreste si alzò del sasso per andare a vedere di persona cosa avesse fatto sua moglie per tutto il tempo.
Lanciò la bottiglia vuota alle sue spalle.
«Spera che er tesoro ce sta. Ossinnò vor dì che te se ‘nventata tutto o che te sei fatta cojonà da ‘n frate morto. E allora me tocca gonfiatte de botte».
Entrò nella buca, strappò la vanga dalle mani della moglie e la fece uscire insultandola.
Ma appena ebbe puntato la pala a terra, cacciò un urlo.
«Ahó! Ma che cazzo è?!»
La vanga cadde. Oreste si portò le mani alla testa e urlò di nuovo.
«Ahio oddio, li mortacci vostra! Ma chi è?»
Poi rovinò a terra.
«Ahio, ahio, abbasta, santoddio!»
«Orè, ma che ciài?», chiese Angela spaventata.
«Abbasta, abbasta! Per carità!»
Quando vide il sangue che usciva dalla bocca del marito, Angela iniziò a urlare di terrore.
«Oddio, m’ammazzano, m’ammazzano!», diceva il marito, coprendosi la testa come se qualcuno lo stesse riempiendo di botte.
Finché non gridò più.

La confessione

Passarono diversi giorni.
L’avevano portata a Piazza del Popolo, nell’ufficio della Gendarmeria Pontificia, dove il Brigadiere Comandante l’aveva interrogata per qualche ora. Non c’era stato modo di farle raccontare una versione diversa del fatto.

«Andó sta l’amante tuo? Dicce andó sta! Lo sapemo che nun pòi esse stata te, a ammazzà de botte tu marito.»
Ma Angela continuava a ripetere di non avere amanti, che lei e Oreste, quella mattina, nel bosco c’erano andati da soli.
«A ffà che?»
«Èssi bbono, Sor Comandà, nun te lo posso dì! Ossinnò m’ammazzeno pur’a mme!»
«Ma chi? Chi è che t’ammazza?»
«Nun ce lo so!», ripeteva Angela singhiozzando. «Nun ce lo so, me dovete da crede!»

La mattina dell’esecuzione, quando il sole stava appena sorgendo, Angela era inginocchiata accanto a un frate.
Le mani e i piedi erano congelati, ma lei non sentiva il freddo. Non sentiva niente, eccetto il grumo di angoscia e paura nello stomaco. Anche le chiacchiere e le preghiere del frate le scivolano addosso.

Gli confessò tutto. Del serpente bianco, del sogno, del marito che agonizzava picchiato a morte da mani invisibili.
Il frate le diede l’estrema unzione e la salutò con un segno della croce. Ma prima che Angela si voltasse per andare, la trattenne un attimo per il braccio e le disse, a bassa voce:
«E ‘ndo starebbe sta quercia?»

La testa di Angela era caduta da qualche ora, quando tre frati si stavano avventurando nel bosco in cerca di una vecchia quercia. Trovarono la buca dove era morto Oreste. Scavarono ancora più in profondità e, dopo qualche ora, trovarono qualcosa.
Una vecchia sacca logora piena di ricci di castagne.

 

Pubblicato in origine sul sito dell’autore

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