La notte di Berta

di: Luca Ricatti

Nonna Rosa aveva promesso un paio di calze nuove di lana al nipotino.
Ormai la mezzanotte di Natale era vicina, ma non aveva ancora completato il lavoro a maglia.
Non avrebbe dovuto continuare a sferruzzare. Non si sferruzza dopo la mezzanotte di Natale. Mise via ferri e gomitolo, il grande falò in piazza stava per iniziare e tutto il paese era già lì per festeggiare.
Ma prima di uscire si voltò, guardò il lavoro incompiuto e pensò al nipotino che aspettava le calze nuove. Afferrò lana e ferri e se li portò dietro.

L’albero più alto del bosco era lì, pulito di tutti i rami, piantato nel centro del piazzale davanti alla Chiesa del paese. Era mezzanotte e le fiamme iniziarono a bruciarlo lentamente, da sotto. Tutti i paesani parlavano, cantavano e bevevano vino.
Nonna Rosa, lì in piedi, prese ferri e gomitolo: in pochi minuti avrebbe finito il lavoro. Ma sentì una voce alle sue spalle, una voce roca e stridula da raggelare il sangue:

«Che fai?»

Rosa fece un salto.
Quando si voltò, la vide che la guardava con occhi oscuri, penetranti, spaventosi.
«Che fai?», ripeté la vecchia. Sembrava avere cento anni. Era gobba, vestita di stracci e con le scarpe rotte.
«Che fai?», disse ancora la strega avvicinandosi, con occhi neri come pozzi.

Rosa fece un passo indietro. La vecchia ora teneva in mano un grosso e minaccioso fuso di ferro.
Rosa riuscì solo a balbettare: «Lo saccio chi sei, io lo saccio chi sei… »

«Eccerto che lo sai! E sai pure che non si fila e non si lavora la lana, in queste notti!
E sai pure che ci sta la punizione!».
La vecchia sollevò il fuso di ferro. L’arnese sfiorò il volto di Rosa, che si girò, buttò all’aria il lavoro a maglia e corse e mettersi vicino alla sua famiglia: sua figlia e il suo nipotino.
Strappò dalle mani di sua figlia un ramo di Pungitopo e se lo strinse al petto. Stringeva così forte che le foglie dure e appuntite le ferirono le mani e le bacche rosse colarono succo vermiglio sul copriabito.
La vecchia la guardò con occhi torvi, bofonchiando nella bocca sdentata.
«Sei furba, sei. Ma ti meriti un sacco di carbone», borbottò mentre se ne andava. «Ti ci faccio diventare a te, di carbone.»

Brucia la vecchia

Ora non era più una vecchia sdentata.
Indossava un lungo abito bianco, la sua pelle era liscia come la buccia di una mela, le sue labbra erano rosse e aveva sguardi maliziosi che promettevano fiamme.
Gino e Mario non l’avevano mai vista. Erano fratelli ma per lei si sarebbero accoltellati. La giovane Berta rideva alle loro battute e loro facevano a gara a gonfiare il petto e bere vino.
Poi lei diventò seria all’improvviso e fece loro cenno di avvicinarsi. Bisbigliò qualcosa guardando in direzione di Nonna Rosa.
Le uscì un sorriso sghembo. Gino e Mario risero fragorosamente e si allontanarono.

Tutti gli uomini del paese fecero il coro, quando Gino e Mario iniziarono a battere le mani e a gridare il rituale
Brucia la vecchia
Brucia la vecchia
Brucia la strega
Brucia la vecchia!

E mentre mezzo paese rideva, d’improvviso i due fratelli afferrarono Nonna Rosa, la sollevarono di peso e cominciarono a farla oscillare avanti e indietro in direzione del grande rogo.
Più la povera Rosa urlava e piangeva più tutti ridevano.
Le fiamme erano sempre più vicine e solo quando il vestito di Nonna Rosa prese fuoco, i due ragazzoni la misero giù.
Tutti trovarono la cosa molto divertente, solo la figlia di Rosa li malediva e li insultava, mentre spegneva a manate il vestito bruciacchiato di sua madre.

Mario e Gino tornarono verso la giovane e bella Berta.
Ma la giovane e bella Berta non c’era più. Al suo posto stava una vecchia gobba dallo sguardo torvo, che li guardò con occhi neri, si voltò e se ne andò.

I gemelli

Fuori del paese, Luigina stava ferma in mezzo al crocicchio. Tutt’intorno era buio pesto, la notte più profonda, lunga e spaventosa che si possa immaginare. Chiunque al suo posto avrebbe avuto paura di incontrare spettri e creature malvagie, ma Luigina no.
Luigina non poteva avere paura di niente, perché non era sola.
E nulla poteva essere più spaventoso della creatura che ansimava sbavando accanto a lei.

Lei gli accarezzò il muso, affondando la mano nel folto pelo. Era enorme. Quando si trasformava diventava più alto di qualunque uomo, le sue mani e i suoi piedi erano terribili, gli artigli avrebbero squarciato qualunque porta di legno. Le zanne e la grossa mascella avrebbero staccato la testa di un cristiano in un colpo solo.
Ma ora stava lì fermo. Anche se l’enorme cuore batteva veloce, anche se la bava colava dalle fauci e le grandi orecchie sentivano i passetti dei piccoli animali nel bosco lontano… Anche se ogni fibra del suo corpo fremeva per correre e ululare, ancora si tratteneva.

Sua sorella gli fece un’ultima carezza e poi gli disse:
«Adesso vattene, che se qualche paesano ti vede, poi ti danno la caccia coi fucili e colle torce.»
Ringhiando, Luigino si voltò e corse via. Avrebbe cacciato e sbranato animali fino all’alba. Solo al sorgere del sole sarebbe tornato a essere un cristiano come tutti gli altri, senza le zanne, la pelliccia e la furia in corpo.
Anche Luigina si voltò e si incamminò verso la Chiesa, dove era attesa.
Perché anche lei era una malnata.

Nati nella notte di Natale, Luigina e Luigino erano predestinati. Suo fratello era già da tempo mezzo uomo e mezzo belva, ma il destino di lei si sarebbe compiuto quella notte.

Sacro lo fuoco e santi tutti li abbruciati

La messa di mezzanotte era già iniziata.
Luigina si guardò intorno e, infondo alla navata, vide la vecchia.
Stava seduta in disparte, gobba, un fazzoletto sulla testa e lo sguardo verso le vecchie scarpe rotte.
Andò a sedersi accanto a lei.
E la vecchia Berta parlò:

«Questa è la notte magica che diventi strega. Qui adesso ti dico le parole che devi sapere per curare i malanni, togliere e mettere i malocchi, incantare l’òmini e zittire le fìmmine. Qui adesso ti dico le parole che se le dici a qualcuno vengo e ti caccio gli occhi e ti trasformo in carbone. Queste parole che ti dico le dirai solo prima di morire a un’altra malnata come te, dentro alla Chiesa, mentre il prete dice la messa del Natale, a mezzanotte.
Giura che hai capito.»

«Lo giuro, che mi possino cecare e trasformare in tizzone di carbone», rispose Luigina.

E allora la vecchia Berta prese a dire le parole:

«Tutti i roghi sono sacri e gli abbruciati sono santi
foglie radiche e rametti li conosco tutti quanti.
Chi gli viene lo starnuto colla flemma scura e lenta
io gli cuocio malva e timo, salvia, rosmarino e menta.
La corteccia dello salice e le foglie di carciofo
glieli do se cià la febbre che gli leva orgni riposo.
Se una fìmmina il marito di mazzate la fracassa
dei capelli del balordo io ci abbrucio una matassa
e se il malocchio non lo ammala ci sta il succo di Caino
io le do questo veleno e lei lo mette dentro al vino… »

Doni e terrori

Il nipotino corse a prendere la calza appesa a lato del camino, mentre Nonna Rosa apriva le finestre per far entrare la la luce del mattino. Dalle fessure si insinuavano spifferi freddi.

«Uffa Nonna – disse il bambino – io volevo stare sveglio per vederla, la Befana!»
«Non lo dire manco per scherzo! – lo ammonì – che nessun bambino l’ha da vedere mai! Che sennò quella ti trasforma in un pezzo di carbone! E mò guarda che ci sta nella calza.»
«E a te ti è mai successo?», chiese il bambino.
«Che cosa?»
«Che la Befana ti trasformava in un pezzo di carbone.»
«Ancora no. Ma tra un po’ succederà. Ma non fa niente, ca io so vecchia. Tu invece devi diventare grande e grosso e devi fare figli e nipoti. Ficca la mano dentro alla calza e pigliati quello che c’è di buono.»
«Nonna?»
«Che c’è?»
«Ma ci sta pure no pezzo di carbone!»
«Eccerto ca ci sta! Qualche marachella l’hai fatta di sicuro, no pezzo di carbone te lo meriti per forza.
No pezzo di carbone ce lo meritiamo sempre tutti. Arricòrdatelo».

Pubblicato in origine sul sito dell’autore

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