Il vuoto intorno

di: Daniele Imperi

Queste sono le ultime cose, scriveva. A una a una scompaiono e non ritornano più.

Paul Auster, Nel paese delle ultime cose

Nel rumore urbano di sottofondo, quello che non riesci mai a definire concretamente, quel misto di ronzii, rombi, parole, colpi, allarmi, sirene, tutto condensato in un’aritmica melodia costante, potevo sentire il fon acceso che soffiava aria calda nella stanza da bagno, abbandonato sul mobile, in quella stanza vuota dove fino a pochi attimi prima una donna l’impugnava, mia moglie, che avevo anche sentito canticchiare una vecchia canzone, la solita che amava ascoltare. Era un rumore leggero, lei teneva sempre il fon al minimo, e quindi non era facile distinguerlo nel frastuono cittadino, il mormorio della città, come lo chiamava mio padre. No, non era facile individuare quel rumore. Però, quando lei passava il fon sui capelli umidi, si avvertiva una nota diversa, perché il flusso d’aria trovava un ostacolo dopo pochi centimetri anziché volare via libero nell’aria. A tratti, quando lo poggiava per pettinarsi, tornava a emettere quel suono perpetuo e fu proprio il prolungarsi di quel soffio monotono a insospettirmi, diversi minuti dopo.

Quando entrai in bagno, mia moglie non c’era più. Inizialmente pensai fosse entrata in cucina, ma non era neanche lì. Restava solo la camera da letto, perché io venivo dalla sala da pranzo, ma anche quella era vuota. La chiamai, anche se sapevo fosse inutile, casa nostra era quella, un piccolo appartamento quasi in periferia, non un castello in cui fosse possibile perdersi. Magari è andata a chiedere qualcosa ai vicini, mi dissi, e ha lasciato il fon acceso. Così uscii e suonai al primo campanello. Non aprì nessuno. Dall’altro appartamento mi aprì invece una ragazza, ma disse di non aver visto mia moglie. La ringraziai e tornai dentro.

In bagno il fon continuava a soffiare aria e lo spensi. La spazzola per capelli era nel lavandino. Mi guardai intorno, non sapendo bene cosa cercare, indizi di una presenza, forse, messaggi celati in oggetti fuori posto. La finestra era chiusa e anche le altre di casa. In camera c’erano ancora i suoi vestiti e il cellulare, quindi non poteva essere uscita a comprare qualcosa, non senza avvertirmi prima come aveva sempre fatto. Chiamai ancora il suo nome, cercai di nuovo in tutte le stanze, guardai perfino sotto il letto, come se mia moglie fosse stata una bambina che s’era nascosta per farmi uno scherzo.

Due ore dopo iniziai a spaventarmi. Fu da quel momento, ricordo, che la paura divenne una componente fissa nella mia vita. S’insediò nella mia mente e non l’abbandonò più. Ma non è il tipo di paura che ti tiene in vita, che ti fa scampare dai pericoli o essere meno avventato, no, è il terrore, il terrore di non esserci più, di fare la fine di tutti gli altri non sapendo né come né quando. E quel terrore è sempre presente, perfino nei sogni. Quel terrore non ti tiene in vita, ti uccide giorno per giorno, ma mai completamente.

Mia moglie era scomparsa e non capivo dove fosse finita. Un attimo prima era in bagno ad asciugarsi i capelli, un attimo dopo non c’era più. Aveva poggiato il fon sul mobile senza spegnerlo e la spazzola nel lavandino. Perché non ha spento il fon, mi domandai? Cosa può averla allontanata all’improvviso da casa in vestaglia e pantofole senza neanche darle il tempo di dirmi qualcosa, di salutarmi?

La polizia, come m’aspettavo, non approdò a nulla. Mi fecero mille domande, s’informarono sul nostro rapporto e, grazie anche alle varie testimonianze di amici e parenti, si convinsero che fra noi due andava tutto a gonfie vele. Mi chiesero se avesse un’assicurazione sulla vita e io risposi di no. Infine fu dichiarata scomparsa e io caddi definitivamente nella disperazione. Al lavoro mi misi in aspettativa e cominciai a passare le mie giornate perlustrando la città nella vana speranza di incontrare mia moglie.

Fu un giorno di quattro mesi più tardi che sentii suonare il campanello. Mi precipitai alla porta, pregando dentro di me che fosse lei, che fosse tornata da me, ma era la ragazza dell’appartamento accanto. Era in lacrime.

«Che cos’è successo?», le chiesi.

«I miei», riuscì a dire fra i singhiozzi.

«Stanno male? Chiamo un’ambulanza?»

«No…», rispose. Poi cercò di calmarsi, fece un respiro profondo e disse: «Non ci sono più.»

Morti, pensai. Tutti e due insieme? «Che vuoi dire?», chiesi, invece.

«Non lo so, sono scomparsi.»

La feci entrare e sedere sul divano in sala. Là mi raccontò tutto.

«Eravamo tutti e tre a tavola», disse, «stavamo pranzando. Poi io mi sono alzata per andare in cucina a riempire la brocca dell’acqua e quando sono tornata non c’erano più.» Fece una pausa, poi riprese. «In un primo momento ho pensato che papà fosse andato in bagno e mamma in camera, così mi sono seduta e ho continuato a mangiare. Ma dopo qualche minuto mi è sembrato strano che non fossero tornati, così li ho chiamati, ma non hanno risposto. Sono andata a controllare in camera, ma non c’erano, neanche nella mia. Ho bussato alla porta del bagno, chiamandoli, ma ancora silenzio assoluto, così ho provato ad aprire. La porta non era chiusa a chiave e dentro non c’era nessuno. Non possono essere usciti di casa, li avrei visti e sentiti.»

«Le finestre erano chiuse?», le domandai.

La ragazza mi guardò aggrottando le sopracciglia. «Sì, perché?»

«Ecco», cominciai, ma non sapevo neanche io perché le avessi fatto quella domanda.

«Pensava potessero essersi… suicidati?»

«Sì», dissi. «Quando è scomparsa mia moglie, ho controllato le finestre, anche se non aveva alcun motivo per togliersi la vita. Ma chi può dire cosa passi nella mente di una persona?»

«Che sta succedendo?», mi chiese. «Prima sua moglie, adesso i miei genitori. E al telegiornale, la settimana scorsa, ho sentito di altra gente che è scomparsa nel nulla.»

Non avevo una risposta da darle. Dal giorno in cui moglie è sparita per me vivere è stata una tortura. Se fosse morta, ne sarei uscito distrutto, ma col tempo avrei finito per accettarlo. Ma lei non è morta, credo, lei semplicemente non c’è più, è svanita nel nulla senza lasciare traccia. E questo non puoi accettarlo, capisci? Non ha senso, non è qualcosa scritto nelle leggi della natura, come la morte.

La convinsi a chiamare la polizia e ripetei la stessa esperienza già vissuta quattro mesi prima. Le stesse domande, le stesse indagini infruttuose. La notizia arrivò anche alla televisione e il cronista riepilogò il lungo elenco di persone scomparse negli ultimi sei mesi. Quel numero m’impressionò.

L’umanità si stava dissolvendo come sale nell’acqua? No, andava contro ogni principio della fisica.

Poi mi ricordai dei vicini, quelli che non mi aprirono quando suonai alla loro porta cercando mia moglie. Non li avevo più visti né incontrati. Suonai il loro campanello, ma di nuovo nessuno venne ad aprirmi. Così chiamai la polizia e li avvertii. Mandarono subito una volante. Gli agenti sfondarono la porta e trovarono l’appartamento vuoto. Dentro c’era odore di chiuso e di cibo andato a male. Erano scomparsi durante la colazione, probabilmente, la tavola in cucina era ancora apparecchiata: una tazzina di caffè mezza vuota, un bicchiere di latte inacidito e biscotti ormai ammuffiti sulla tovaglia.

Decisi di fare un censimento nel mio palazzo e scoprii con orrore che, oltre me e la ragazza della porta accanto, erano rimasti in tutto soltanto altri sei inquilini su oltre trenta.

Presi a girare per il quartiere e per la prima volta mi accorsi di quanto fosse diminuita la popolazione. I supermercati e i negozi erano pressoché deserti a ogni ora e per le strade la gente iniziava a salutarti, come se adesso, rimasti in pochi, ci fosse più intimità, fossimo divenuti tutti più amici.

Poi mi spinsi oltre, fino in centro, ma anche lì la situazione era la stessa. Iniziai a prendere qualche testimonianza, fermando le persone e facendomi raccontare la loro esperienza.

«A un certo punto la gente ha cominciato a sparire», disse un anziano. «Così, senza motivo. Io vivevo con mio figlio e sua moglie. Una mattina mi sono alzato e loro non c’erano più.»

La sera, quando facevo ritorno a casa, accendevo il televisore e ascoltavo il telegiornale. I comunicati del governo erano sempre uguali. Invitavano alla calma, promettevano di far luce su queste sparizioni che si stavano verificando in tutto il pianeta e lavoravano di concerto assieme alle altre nazioni. Chiacchiere, come sapevamo tutti. La gente stava svanendo, inghiottita da un destino senza nome, cadeva oltre l’orlo della realtà, lasciandoci nel dubbio, nel dolore, nella paura.

Sara, la ragazza che abitava accanto a me, venne a stabilirsi a casa mia. Non voleva restare sola, era terrorizzata e potevo capirla. Le lasciai la mia camera da letto e tenni per me il divano. Volle accompagnarmi nelle mie perlustrazioni cittadine, di quartiere in quartiere per scoprire qualcosa, monitorare la situazione, fare domande ai sopravvissuti.

«Ogni notte vai a dormire senza la certezza di ritrovarti il giorno dopo», mi disse una sera. Da quel giorno dormimmo insieme, ma non ci fu nulla fra noi. Io non ne avevo la forza, il letto aveva ancora impresso il profumo di mia moglie e lei mi mancava come il primo giorno della sua scomparsa. Ma Sara non cercava sesso, voleva solo compagnia continua, stare vicino a qualcuno più tempo possibile. Si allontanava solo per andare in bagno e fare la doccia, ma lasciava la porta spalancata, pregandomi di restare lì vicino, di ascoltare, di percepire ogni minimo dettaglio che annunciasse la sua sparizione. Le dissi di sì, naturalmente, ma sapevo bene che, se fosse scomparsa, sarebbe accaduto senza alcun rumore, senza alcun avviso. Sarebbe accaduto e basta.

I giorni trascorsero e la gente per le strade diminuiva sempre più. Una mattina ce ne stavamo camminando in un viale, sugli alberi iniziavano a tornare le foglie e il sole scaldava l’aria. Cinguettii qui e là davano una nota di vita a una città – a un mondo – che stava morendo senza lasciare cadaveri. Sorrisi a una madre con una ragazzina, passeggiavano come noi rilassandosi qualche ora prima di far ritorno a un’esistenza che rischiava di farci impazzire tutti quanti. Si fermarono a bere a una fontanella, prima la donna, poi sua figlia. Io mi voltai e indicai a Sara un punto in fondo al viale, dove due cani amoreggiavano indisturbati. Ridemmo entrambi.

Poi sentimmo l’urlo della ragazzina.

«Mia madre! Dov’è mia madre?»

Ci girammo subito a guardare e davanti a noi c’era solo lei, la ragazza, che ruotava su se stessa cercando di vedere dove fosse finita sua madre. Il tempo di bere un sorso d’acqua, noi di voltarci per pochi secondi, e una donna era svanita. Una come tanti altri.

Non riuscimmo a consolarla. Sara ci provò in tutte le maniere, ma invano. Dissi alla ragazzina che poteva stare con noi, ma non accettò.

«Aspetto mia madre, se poi torna, non mi trova più.»

«Come ti chiami?», le chiesi.

«Elisa», rispose.

«Elisa, tua madre non tornerà più, mi dispiace.»

«Sì, che torna.»

«Elisa, ascoltami», le dissi con una certa autorità nella voce. L’afferrai dolcemente per le braccia e la guardai negli occhi che si andavano inumidendo. «Hai sentito quello che è successo, vero? Della gente che scompare?»

Annuì.

«Vieni con noi, staremo uniti, vicini, e potremmo proteggerti», le mentii. Ma che altro potevo dirle?

«No, allora vado a cercarla.»

«Dove?»

«Non lo so, vado a cercarla.» Poi si divincolò da me e si allontanò correndo e chiamando sua madre. Non la rivedemmo più.

Sara scomparve tre giorni dopo. Stavamo preparando la cena, una sera come le altre. Avevo messo su un po’ di musica tanto per spezzare quel silenzio che ormai s’era impossessato della città. Il suo mormorio non si diffondeva più come prima nell’aria, adesso c’era soltanto il vuoto, la sensazione del nulla attorno a noi.

Facevamo avanti e indietro fra la cucina e la sala da pranzo, apparecchiando la tavola e finendo di cucinare. Quando la vidi per l’ultima volta, mi stava sorridendo. Sembrava felice in quel momento, come se, anche solo per un attimo, avesse dimenticato la tragedia che s’era abbattuta sull’umanità e la perdita dei suoi genitori. Poi andai in cucina a prendere l’insalata e lei rimase in sala a sistemare dei fiori a centro tavola – le piacevano molto i fiori e fin dal primo giorno aveva insistito per averne sempre sul tavolo dove mangiavamo. Quando tornai da lei, l’insalatiera mi cadde di mano, come se non avessi più forza addosso. La lattuga si sparse sul pavimento assieme all’olio e ai pezzi di vetro.

Sara non c’era più.

Sul tavolo, accanto al vaso coi fiori, ce n’erano altri due, lasciati lì, abbandonati sulla tovaglia, le ultime cose che Sara aveva toccato prima di svanire nell’oblio del mondo. Li presi, ne tagliai i gambi e misi i petali nel mio portafoglio. Li volevo con me quando me ne fossi andato anch’io.

Da quel giorno sono trascorse alcune settimane e per le strade della città si vede sempre meno gente. A volte, nel silenzio delle lunghe giornate, si sentono le urla di chi ha appena perso qualcuno. Non possiamo farci niente, nessuno può fare nulla, non c’è consolazione nella dissolvenza repentina.

Non ho più acceso il televisore. I comunicati governativi si erano fatti sempre più rari, segno che anche i politici non sono immuni a quest’apocalisse. Trascorro i miei giorni vagabondando per le strade, parlando di quando in quando con qualcuno oppure con me stesso, perdendomi nei ricordi. I negozi hanno smesso di vendere da tempo, adesso basta entrare al supermercato e prendere quel che occorre. C’è cibo gratis per tutti, ormai.

Mi chiedo chi sarà l’ultimo e che fine faranno le città e tutto ciò che abbiamo costruito quando nessuno di noi abiterà più questo pianeta. Si disintegrerà pian piano ogni cosa e di noi non resterà più alcuna traccia.

Vivo alla giornata, sapendo a cosa vado incontro, che da un momento all’altro potrò non esistere più, che ogni momento è buono per svanire per sempre. Mi chiedo se c’è dolore in questa dipartita. Mia moglie e Sara hanno sofferto? No, credo di no. Mia moglie canticchiava, Sara sorrideva. Portate via in un attimo di felicità.

Quando me ne andrò io? Anche io sorridendo? Me ne andrò nel sonno? Oppure camminando per le strade o quando sarò in bagno? Rischio di impazzire con queste domande che non possono avere una risposta. Devo vivere e basta e non pensare al futuro. Il futuro non esiste, in fondo. È soltanto la speranza di ciò che potrà accadere.

Mi alzo presto come tutte le mattine. Non ho mai permesso a questo male senza nome di prendermi, di farmi cadere nella commiserazione. Io sono sempre io, quello che vaga per le strade, che cerca qualcuno con cui parlare, che sorride a un gatto che gioca da solo o a un fiore che sboccia nonostante tutto.

Sono nella città che scompare, vivo e con un pensiero fisso che non m’abbandona, non mi dà mai tregua.

Io sono ancora qui.

Ma domani?

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