Il gatto oltre la finestra

di: Daniele Imperi

Quando aprì gli occhi, Vignir seppe di non aver sognato. La notte era fonda, il gelo straziava il paesaggio e il silenzio galleggiava su quel mondo bianco e cristallino. Il bambino tirò su le coperte, tremando, ma non seppe dire se per paura o per il freddo.

Si alitò sulle mani, cercando una posizione comoda che non trovò. Attorno buio pesto. Il grido d’angoscia del vento che spingeva via i sogni verso i confini dell’oscurità. Il lento, costante ronfare dei genitori che non gli diede sicurezza.

Non riuscì a riprendere sonno. Si domandò cosa l’avesse svegliato, perché non poteva esser stata quella consapevolezza così istantanea, così annunciata.

I pensieri vagarono e Vignir ricordò.

Tutte le storie sentite negli ultimi giorni divennero d’un tratto realtà. Una realtà che l’attendeva fuori, dove l’intera valle del Mosfell riposava in quella notte solstiziale sotto strati di neve ghiacciata e terra di zolfo fumante.

E un nome, uno su tutti, apparve nella sua mente, gelido come le tenebre infinite della notte polare, un nome che parlava d’artigli e pelo ispido, di zanne affilate e occhi di spenta luce.

Jolakottur.

Il Gatto del Solstizio.

Quel nome, leggendario quanto mostruoso, non l’aveva più abbandonato dal giorno prima, quando il padre l’aveva rimproverato per la sua pigrizia. Vignir aveva riso, correndo libero sul terreno gelato, mentre gli altri bambini cardavano la lana. Lavorare in quei giorni non faceva per lui.

L’uomo aveva tentato d’acciuffarlo, ma era scivolato sul ghiaccio e Vignir, ora, rintanato nel letto, rivisse la scena, ma non la giudicò più così risibile come il giorno prima.

«Favole», aveva risposto quella mattina, quando il padre sbraitava contro di lui tentando di spaventarlo nominando lo jolakottur.

Eppure adesso, con gli occhi sbarrati nel buio della stanza, faticava a guardare oltre i vetri della finestra.

«Non c’è niente, là fuori», bisbigliò. «Niente.»

Parole che non gli infusero coraggio. Parole che svanirono senza neanche condensarsi in nuvole d’alito. «Non c’è niente, là fuori», ripeté.

È là fuori e aspetta.

La voce provenne da dentro di lui, da un subconscio che sapeva, che credeva, alle storie.

Storie, non leggende.

Vignir se ne convinse. Rivide nella mente i giorni di Jól degli anni passati, quando coppie di genitori lacrimanti chiamavano i nomi dei propri figli invano. Le loro voci che si dissolvevano per quelle lande di bianco accecante senza giungere ai destinatari. E quella volta che Vignir chiese, quella notte, ricordò il bambino, il padre accantonò la domanda con un gesto nervoso. La madre abbassò lo sguardo sul piatto di zuppa che fumava. Continuarono a mangiare in silenzio e il bambino non dormì, ripensando alle voci, ai lamenti nella notte che il vento portava sulle strade del villaggio, alle urla di disperazione.

Alle sedie vuote, che mai più furono riempite.

«Non c’è nessuno, là fuori», si disse. «Stanotte verranno gli jólasveinar e mi porteranno i dolci.»

Che cos’era stato, allora, a svegliarlo? Un rumore. O forse la fine d’un sogno. Eppure…

Non un rumore, ricordò Vignir. Era stato qualcos’altro. Qualcosa che aveva sentito, certo, qualcosa che veniva da fuori.

Un verso.

Tremendo, profondo, bestiale.

Felino.

Il bambino affondò la testa sotto le coperte. Non c’è nessuno, là fuori. Non c’è nessuno, là fuori. Non c’è nessuno, là fuori. Ripeté più volte quella frase sottovoce, nell’illusione che davvero non ci fosse nulla oltre la finestra, eccetto il bianco del Mosfell e le rocce innevate. E il vento malinconico e…

Jolakottur.

Il gatto che attende fuori. Il gatto venuto da chissà dove a divorare i piccoli, pigri e disobbedienti. Quelli come Vignir.

No, erano solo leggende. Favole, che la gente raccontava ai bambini per farli lavorare in quei giorni di festa. E a chi non avesse un abito nuovo, a chi non l’avesse ricevuto per aver cardato la lana, a chi come Vignir se n’era andato a correre, allora…

Un soffio d’aria gelida l’investì.

Vignir si strinse le coperte addosso, domandandosi da dove provenisse quel freddo. Era la paura, disse fra sé. Il terrore per il gatto che aspettava il momento giusto per spiccare il balzo ed entrare.

Fu allora che capì.

Il bambino si voltò d’istinto verso la finestra e…

Era aperta.

Fuori, il buio sembrava solido come le rocce del Dimmuborgir. Chi aveva aperto le imposte? Ricordava d’averle chiuse, come sempre. Il vento, allora. O…

Lentamente, Vignir si alzò, tenendo d’occhio le fauci oscure della notte, le orecchie tese a captare qualsiasi suono, qualsiasi verso.

Di nuovo.

Aveva fatto appena due passi sul pavimento quando lo sentì.

Rauco, sordo come un avvertimento ferino, spezzò il silenzio glaciale.

Una voce selvatica che sembrava chiamarlo. Che attendeva, là fuori nelle tenebre, al freddo. Venuto per lui, soltanto per lui, Vignir senza vestito, Vignir che non aveva lavorato, Vignir che aveva disobbedito.

E quella parola che emergeva ancora nella sua mente.

Jolakottur.

Vignir non riuscì neanche a gridare quando accadde.

Era mattina inoltrata quando suo padre andò a svegliarlo e trovò la stanza vuota.

E vide le orme.

Uno zampettare rosso sangue che dal letto si perdeva oltre la finestra spalancata.

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